2. L'edilizia abitativa in Italia attraverso il telescopio e il microfono Prospettive ed esperienze internazionali degli attori del progetto abitativo

Salvatore Porcaro

Salvatore Porcaro, Milan Triennale, authored this chapter. The Permanent Mission of Italy to the International Organizations provided support to this project.

Housing: 615 accomodations

Integrative housing services: 380 mq

Local and urban services: 1,240 mq

Business and shops: 2,200 mq

End of construction site: June 2020

Inhabitants entry: July 2020

Number of accomodations: 615 flats, of which 336 subsidised and controlled rent, 211 for direct sale and 68 social rent lease.

Accomodations’ dimensions: 51 - 146 mq

Energy rating: A Cened

Investors: Fondo Immobiliare Lombardia

Fund management and property developement: Redo Sgr

Technical and social advisor: Fondazione Housing Sociale

Public/private partnership: Comune di Milano, Regione Lombardia

Architects: Studio M2P Architetti Associati, MAB Arquitectura Studio Associato

Social Manager: Ecopolis Servizi

Partnership: Climate KIC: Politecnico di Milano-Dipartimento di Energia, Consorzio Poliedra, A2A Smart City, A2A Calore e Servizi, GaiaGo (car sharing), Planet Smart City.

La prima testimonianza che raccolgo è quella di Carlo Cerami, Presidente della società di gestione del risparmio Redo Sgr. A Lui chiedo di raccontare la storia recente dell’edilizia residenziale privata in Italia, del modello nato e sviluppato a Milano, e del perché questo non riesca ad affermarsi al Sud Italia.

“La storia dello housing sociale in Italia” racconta Carlo Cerami, Presidente Redo Sgr “coincide con un’esperienza locale. Nei primi anni Duemila Fondazione Cariplo, una fondazione di origine bancaria che investe gran parte dei profitti in opere di pubblico interesse, si accorse che la corsa al rialzo dei prezzi di quella che allora era una delle tante bolle immobiliari metteva in difficoltà la tenuta sociale della comunità e in particolare delle famiglie che non possedevano una casa di proprietà.”

“Questa consapevolezza” continua Cerami, “aveva a che fare con la cultura dei fondatori di Fondazione Cariplo, e in particolare del suo Presidente Giuseppe Guzzetti, condivisa anche dalla Pubblica amministrazione locale che faceva i conti con una crisi, allora già affermata, da un lato delle disponibilità economiche pubbliche a investire in piani di edilizia residenziale pubblica e dall’altro delle difficoltà di quella stagione di successo che aveva caratterizzato gli anni sessanta e settanta, disciplinati dalla legge sull’edilizia economica e popolare.”

“Questa consapevolezza, unita alla sensibilità sociale, ha portato allo studio di un modello, già affermato nel frattempo in Europa, di un tipo di edilizia privata sociale, caratterizzata da un convenzionamento del prezzo ma, a differenza del passato, anche da professionalità nuove capaci di tenere il passo con l’evoluzione del mercato delle grandi imprese finanziarie e industriali, profondamente cambiato.”

“Le possibilità quali erano? Erano quelle di intercettare il capitale internazionale che si muoveva alla ricerca di opportunità d’investimento e che già allora cominciava a intravedere la possibilità di destinare una parte di questo capitale, che per la sua misura prevalente era usato per remunerare con valori importanti gli investitori, anche per finalità e scopi di carattere sociale. Quello che in gergo, nella pubblicistica, si chiama il capitalismo etico o quanto meno con una forte connotazione sociale.”

Fondazione Cariplo ha promosso dunque un progetto, elaborato con il Politecnico di Milano, per realizzare interventi di edilizia privata sociale, finanziati da un fondo immobiliare e ispirati a un modello di vita comunitaria, in alcune aree della città che erano state nel frattempo messe a bando dal Comune di Milano.

Un modello che ha trovato subito il favore delle istituzioni locali. Fin dalle origini Regione Lombardia è entrata a far parte del Fondo Immobiliare Lombardia – un fondo etico promosso nel 2006 da Fondazione Cariplo e destinato allo affordable housing –, e ha predisposto un apparato di norme legislative che incentivano l’edilizia privata sociale. Il Comune di Milano, dal canto suo, ha adeguato gli strumenti urbanistici, incentivato forme di abitazione in affitto a prezzo convenzionato, promosso localmente il bando internazionale Reinventing Cities incentrato sulla qualità dell’offerta anziché soltanto sul valore. “Il Comune di Milano” sottolinea Cerami, “ha messo in gioco delle aree importanti, strategiche, e ha premiato non soltanto il valore di acquisto ma con addirittura ottanta punti su cento la qualità del progetto, che il mercato tende naturalmente a non valorizzare, quindi il risultato sociale, il risultato ambientale, il risultato architettonico e qualitativo, gli spazi pubblici.”

Che cosa caratterizza questo modello di housing sociale italiano? “Innanzitutto, l’utilizzo del fondo immobiliare” spiega Cerami, “uno strumento che ha alcuni indubitabili vantaggi: seleziona operatori professionalizzati in grado di spendere il capitale d’investimento nel settore dell’edilizia con quel grado di certezza, di trasparenza, di accountability, di rendicontazione e di protezione degli interessi dell’acquirente finale. Ma anche la capacità di recuperare importanti stanziamenti, perché i fondi immobiliari si rivolgono ai grandi investitori internazionali, i quali ovviamente si muovono quando la massa di investimento è importante.”

“Nel nostro caso, il Fondo Immobiliare Lombardia ha consentito finora di impiegare quasi seicento milioni di euro e di averne già pronti fino al miliardo. Un miliardo di euro producono tre miliardi d’investimenti a cascata. Sono numeri, che paiono poca cosa rispetto al tema di cui si parla, ma è tantissimo se si pensa che sono concentrati in una sola città o comunque in un contesto urbano limitato.”

“Non è l’unico modello esistente” precisa Cerami, “e presenta delle inefficienze dovute al fatto che l’apparato organizzativo comporta costi rilevanti. Inoltre risulta complesso e difficile amministrare la società che gestisce il denaro del fondo immobiliare, perché quest’attività richiede una molteplicità di competenze e personale che si dedica a tempo pieno e con grande professionalità, condizione che ovviamente non è semplice da raggiungere se il prodotto finale dà diritto a una bassa remunerazione. La nostra è una benefit coop, iscritta in un organismo internazionale che ci premia per quanti benefici sociali e ambientali produciamo oltre che per il numero di prodotti che mettiamo sul mercato calmierato, ma non è quello il bilancio che io porto a fine anno in approvazione in assemblea, perché il codice civile prevede che io debba avere un bilancio in ordine e che non perda denaro”.

“Tuttavia questo modello fatica ad affermarsi al di fuori di noi” ammette Cerami, “per due tipi di arretratezza. Innanzitutto l’arretratezza del sistema politico che non ha capito e non si fida del fatto che una parte delle politiche legate alla casa sia in qualche modo lasciata allo spazio di un imprenditore socialmente sensibile ma sempre privato. Dall’altro l’arretratezza del sistema delle imprese di costruzione che ha molto investito negli anni passati sulla produzione edilizia e che teme di vedere svalutati i propri asset, che per altro sono stati costruiti con grande generosità prima della crisi del 2008”.

“Ma oggi forse siamo arrivati a una stagione sufficientemente lunga, che ha conosciuto varie fluttuazioni di mercato, per tirare un bilancio e il bilancio è positivo. Cioè noi abbiamo cambiato la produzione edilizia, abbiamo messo sul tavolo la presenza di investitori e professionisti che prima non c’erano e che oggi sono in grado di dialogare con il mondo intero per fare case a basso costo, non più soltanto con i destinatari finali. Abbiamo, secondo me, vinto la sfida della tenuta economica perché per quanto ci siamo accontentati di rendimenti bassi questi rendimenti sono arrivati e siamo riusciti quindi a diventare protagonisti di un mercato sociale che non c’era prima, o che era rappresentato da forme più antiche. Oggi” conclude, Cerami, “il grande tema è come si possa uscire dalla Lombardia. Da soli riusciamo a mettere sul mercato un appartamento di 75 mq con tutte le caratteristiche di efficienza energetica, di accessibilità e anche di bellezza a 450/500 euro al mese d’affitto, ma questo prezzo non è un prezzo conveniente in molte aree del paese. Serve partenariato pubblico-privato, serve una pubblica amministrazione che metta a disposizione un capitolo di spesa pubblica per riuscire a mantenere i valori d’affitto a un prezzo più basso del mercato e garantire così alcune fasce che non ce la fanno”.

Nella sede di Fondazione Housing Sociale incontro Giordana Ferri, Direttore esecutivo. A lei chiedo di raccontare il lavoro della Fondazione e di descrivere brevemente i progetti più significativi che ha realizzato in questi anni.

“Il modello che perseguiamo” racconta Giordana Ferri, Direttore esecutivo Fondazione Housing Sociale, “è quello dell’abitare collaborativo. Realizziamo residenze in affitto a canone calmierato con spazi comuni che vengono gestiti direttamente dagli inquilini come se fossero un’estensione della propria casa. Oltre alla residenza, nei nostri interventi, inseriamo anche servizi gestiti da enti del terzo settore e attività commerciali per creare un piano terra vivo. Non è un percorso semplice, nel senso che attrarre in aree periferiche soggetti che vogliono fare attività commerciali, sociali o culturali non è semplicissimo.”

“Noi ci siamo riusciti” spiega Ferri, “con una definizione attenta dello spazio pubblico che prevede, tra lo spazio privato dell’appartamento e quello condiviso la presenza di spazi intermedi più protetti, fruiti principalmente dai nostri inquilini, che danno la possibilità alle persone di incontrarsi e ai soggetti che decidono di venire da noi di offrire servizi e commercio.”

“Un altro aspetto importante dei nostri interventi” continua Ferri, “è la mixitè perché crediamo fortemente che questa sia un valore importante negli interventi di tipo residenziale. Infatti, dove i nostri progetti sono riusciti meglio, dove c’è stata una forte collaborazione con l’amministrazione pubblica, noi abbiamo sia alloggi assegnati direttamente dal Comune a canoni paragonabili all’edilizia cosiddetta popolare, sia abitazioni a canone calmierato e alloggi in vendita. Un ulteriore elemento che va ad arricchire la mixitè è che, in molti casi, assegniamo 10% degli alloggi a enti del terzo settore che usano gli appartamenti come strumento di reintegrazione sociale di alcune categorie più fragili. Quindi affittiamo questi locali direttamente a organizzazioni che si occupano in modo specifico di riabilitazione di persone che hanno avuto problemi e che hanno perso anche l’abitazione”.

I primi due interventi realizzati con il contributo di Fondazione Housing Sociale sono Cenni di cambiamento e Figino Borgo Sostenibile. Si tratta di due complessi molto diversi tra loro sia per dimensione sia per il contesto in cui si trovano. Cenni è situato in un quartiere periferico con un tessuto urbano compatto, Figino invece si trova ai confini della città, tra un parco rurale e i margini di un vecchio borgo. Nel primo intervento sono stati realizzati 114 appartamenti, nel secondo 340.

Questi due progetti sono stati per FHS un campo di sperimentazione importante e in essi si trovano tutti gli elementi descritti da Ferri. Innanzitutto, è stato fatto un concorso internazionale per assegnare l'incarico di progettazione, e grazie al lavoro dei progettisti si è riusciti a mettere a punto il modello dello spazio semi-pubblico, semi-privato. A Cenni, per esempio, sono state realizzate parti più intime dove si trovano gli appartamenti, e man mano che si va verso la vecchia cascina – che insisteva sull'area messa al bando dal Comune e che è stata acquisita dal fondo – altre parti pubbliche con una piazza sulla quale si affacciano un bar, una libreria per bambini e alcuni servizi come il poliambulatorio e il centro diurno per disabili. La piazza si apre poi verso la cascina che funge da fulcro di tutto l’intervento perché al suo interno si trova un centro culturale nel quale ci sono un ristorante, un caffè, e sale prova musicali. Il progetto di riuso della cascina ha avuto poi un percorso autonomo, che è stato maggiore e più importante delle aspettative della Fondazione, diventando un punto di riferimento anche a livello cittadino ed elemento di connessione tra una dimensione locale e una dimensione urbana.

Un altro aspetto che accomuna gli interventi di Cenni e Figino è la presenza di quelle che la Fondazione chiama tipologie speciali. A Cenni c'è, per esempio, il Foyer: cinque grandi appartamenti condivisi da giovani lavoratori che possono risiedervi solo per un certo numero di anni, perché l'idea è che questi appartamenti possano essere uno spazio di passaggio intermedio dalla casa di famiglia alla vita autonoma. Anche a Figino ci sono delle tipologie speciali che rappresentano per la Fondazione qualcosa di molto importate e sulla cui definizione lavora tuttora. C’è, per esempio, un co-housing per anziani costituito da dieci monolocali e spazi comuni. E c’è Grace, una struttura per anziani semi autosufficienti composta da alcuni appartamenti e un centro diurno, destinata ai malati di Alzheimer che si possono muovere autonomamente nel quartiere.

Come Cenni, e in parte Figino, anche Merezzate, si pone come avamposto della rigenerazione di alcune parti della città di Milano. L'intervento si colloca in un'area di sviluppo, quella di Santa Giulia, che ha subìto vicende travagliate perché doveva essere un quartiere modello realizzato solo in parte e questo ha generato problemi sociali notevoli.

“Noi siamo stati i primi a intervenire sull'ex progetto di Santa Giulia” precisa Ferri, “ma nel giro dei prossimi anni, per tutta una serie di coincidenze, nasceranno nuove strutture destinate ai Giochi olimpici invernali del 2026 e un grosso intervento residenziale; si andranno così a realizzare le parti che erano rimaste in sospeso e diventerà un quartiere molto interessante”.

Quello di Merezzate è un intervento molto ambizioso dal punto di vista della sostenibilità, ma anche perché è il primo nel quale si sta sperimentando un ampliamento del progetto collaborativo in cui gli spazi comuni, chiamati Adaptive Zone, sono stati pensati come un patrimonio del quartiere.

Dal punto di vista morfologico Merezzate è un intervento ampio e articolato caratterizzato da tante piccole piazze che offrono spazi a misura d’uomo, protetti e adatti ai bambini anche se attraversati da molte persone. Spazi pensati come un ampliamento della casa verso l’esterno. Oltre alle abitazioni Merezzate ospita anche alcuni importanti servizi tra i quali un asilo, una scuola media, un supermercato, un bar, una pizzeria, e un piccolo fablab.

Inoltre è stata sperimentata più che altrove un’app realizzata con la società Planet smart city, che consente da un lato di prenotare gli spazi collettivi, di vedere che tipo di attività ci sono, di lanciare progetti e quindi di raccogliere delle adesioni; e dall’altro il controllo del consumo energetico, e la promozione degli spazi commerciali compresi quelli del quartiere. “In questi interventi dove si condividono spazi e servizi è molto importante avere uno strumento che consenta un'organizzazione razionale” conclude Ferri.

Negli ultimi anni Fondazione Housing Sociale insieme a Redo Sgr, la società di gestione del Fondo Immobiliare Lombardia, ha accresciuto di molto la sua esperienza grazie a diversi interventi realizzati a Milano, tra i quali 5 Square, Moneta, Quintiliano e Urban New Living.

Un'altra opportunità di crescita per Fondazione Housing Sociale è stata la partecipazione ai bandi di Reinventing Cities e l’aggiudicazione di due aree molto importanti che sono lo Scalo ferroviario di Greco Breda e l'ex Macello di Milano. In particolare con l’intervento dell’ex Macello, la Fondazione potrà sviluppare a una scala più ampia tutti i temi sui quali ha lavorato in questi anni. I noltre, è riuscita a coinvolgere un gruppo ampio di investitori tra cui le cooperative, che negli interventi precedenti erano impegnate solo nella fase di gestione del patrimonio immobiliare costruito.

Tra le funzioni che saranno realizzate ci saranno anche residenze universitarie, un altro ambito che la Fondazione ha portato avanti in questi anni, ma in questo caso presente nello stesso intervento. Ci saranno dei servizi molto importanti. Sarà ospitato il campus principale dello IED – Istituto Europeo di Design. Ci sarà Pod, un luogo di sperimentazione scientifica con spazi espositivi che ha come obiettivo quello di aumentare il capitale scientifico della città. E poi tutta una serie di attività minori ma non meno importanti che riguardano il commercio, la cultura e il rapporto con il quartiere, che è un quartiere popolare importante dove sono previsti interventi anche del Comune di Milano che realizzerà una nuova biblioteca pubblica, la BEIC.

“Gli alloggi sono 1.200. Quindi è un intervento grande e molto sfidante dal punto di vista energetico, dal punto di vista della sostenibilità. Abbiamo lavorato molto su questi aspetti non solo perché il concorso lo richiedeva ma anche perché è diventato proprio uno dei pilastri del nostro progetto e poi ancor di più lavoreremo sull'Adaptive Zone perché avrà un'importanza fortissima soprattutto nel rapporto col quartiere esistente. Lo faremo anche con attività transitorie e temporanee”.

Un altro intervento importante, vincitore del primo bando di Reinventing Cities, è quello dell’ex Scalo ferroviario Greco Breda. Qui FHS ha proposto un progetto, Innesto, incentrato sul cibo: mettendo al centro dell’intervento una community food hub, ha destinato gran parte delle aree aperte a orti urbani e ha previsto uno spazio per la sostenibilità e l’economia circolare.

“Fondazione Housing Sociale nasce nel 2004 realizzando il primo fondo di housing sociale, quello lombardo, tuttora gestito da Redo Sgr, che è stato il prototipo per la realizzazione del sistema nazionale integrato dei fondi. Un sistema che Fondazione Housing Sociale ha contribuito ad avviare, e che attualmente sta realizzando 20.000 alloggi su tutto il territorio nazionale. FHS lavora con la maggior parte dei fondi che si sono creati a livello regionale come advisor tecnico e quindi ha seguito progetti in quasi tutte le regioni italiane, e tuttora ne monitora lo sviluppo facendo in modo di portare dove possibile questo modello che ho descritto.”

“L'asse portante del nostro progetto, che ritroviamo poi anche in tutti gli altri progetti, anche se in scala inferiore perché sono più piccoli rispetto a quelli realizzati nel territorio milanese, è sicuramente la presenza di un gestore sociale che per noi è un elemento importante, che si radica e arriva dal territorio. Quindi quando lavoriamo su altri territori di solito cerchiamo partner territoriali. Considerate che i fondi sono territoriali per natura e quindi spesso hanno investitori riferiti al territorio, però parliamo di un territorio regionale. Mentre quando lavoriamo sugli interventi andiamo a cercare soggetti che sono parte del territorio e il primo soggetto con il quale lavoriamo è il gestore sociale, colui che gestisce i nostri immobili e ha anche rapporti con gli inquilini. L'altro elemento importante è quello dello affordable housing e quindi di offrire alloggi a canoni calmierati che siano almeno il 30% in meno al canone di mercato. E poi quando riusciamo facciamo sicuramente la mixité e introduciamo attività non esclusivamente residenziali, quindi funzioni che siano di supporto al quartiere o funzioni commerciali.”

”Quindi questi sono gli elementi sui quali di solito lavoriamo, ma non sempre è possibile perché alcune volte gli interventi sono molto più piccoli e i nostri fondi si basano sul rendimento e quindi per raggiungere quel rendimento in interventi molto piccoli bisogna attuare alchimie e mix che non danno molto spazio ad altri aspetti come quello dei servizi o di appartamenti a canoni più bassi o dati agli enti del terzo settore. Ciò che riusciamo a fare quasi sempre è avere spazi comuni da destinare agli inquilini e una piccola start up di comunità che, nel caso di interventi distanti da Milano, non facciamo direttamente ma affidiamo a soggetti che di solito sono collegati al gestore sociale che fa lo start up di comunità e quindi aiutano gli inquilini a usare gli spazi comuni”.

Dopo Cerami e Ferri, incontro Ivan Barbieri, Vice presidente Cooperativa Delta Ecopolis. A Barbieri chiedo di raccontare la storia della Cooperativa e di spiegare il ruolo di gestore sociale che svolge nei progetti realizzati da Redo Sgr con il supporto di Fondazione Housing Sociale.

“Le cooperative edilizie che hanno contribuito alla nascita di Delta Ecopolis” racconta Ivan Barbieri, Vice presidente Cooperativa Delta Ecopolis, “realizzarono i primi insediamenti abitativi, soprattutto in Lombardia, nei primi del Novecento. Nel 2011 la cooperativa ha dato vita a una nuova divisione, Ecopolis servizi, che si occupa di servizi amministrativi, commercializzazione e coordinamento tecnico. Fin dalla sua nascita Ecopolis servizi si è proposta come gestore sociale mettendo in rete professionalità tecniche, amministrative e di comunità con l’obiettivo di creare e gestire nuove comunità di abitanti.”

“Delta Ecopolis ha un patrimonio immobiliare di sua proprietà di circa 1.500 appartamenti a proprietà indivisa” continua Barbieri, “questo ha fatto sì che nel corso degli anni sviluppasse una notevole esperienza e conoscenza, da mettere a disposizione di altri. Qui risiede la specificità rispetto ad altri gestori. Per noi l’individuo, l’abitante, il cittadino, il socio, chi abita un nuovo appartamento o un appartamento già realizzato è il punto di riferimento, è la base sulla quale costituire, creare e gestire nuove comunità.”

Barbieri spiega che Ecopolis servizi segue tutta l’attività che comunemente viene definita tenant menagment, dalla predisposizione dei bandi, alla selezione delle candidature, alla verifica dei requisiti, all’abbinamento dell’individuo o della famiglia in un determinato appartamento, e alla raccolta dei documenti necessari per la sottoscrizione del contratto. E dopo la sottoscrizione del contratto, si occupa della consegna dell’immobile, del servizio post-vendita, della gestione di eventuali segnalazioni di manutenzione e parallelamente della gestione ordinaria, quindi dell’eventuale turn over, di aspetti puramente amministrativi, di morosità, piuttosto che attività legate alla creazione della comunità.

“Delta Ecopolis ha sempre sviluppato un’attenzione al socio e parallelamente alle attività legate alla normale gestione tecnico amministrativa di un fabbricato” aggiunge Barbieri, “vi erano poi iniziative di aggregazione come eventi, mostre, occasioni di socialità. Recentemente abbiamo dato il via anche a Fondazione Cotica, una fondazione culturale, perché il nostro obiettivo è quello di fornire un servizio a 360°”.

Per il progetto di Redo – Merezzate, Ecopolis servizi ha affiancato l’ufficio tecnico fin dalla fase di realizzazione del building, e ha poi gestito la commercializzazione di 615 appartamenti: 211 in vendita e 404 in affitto, di cui 60 a canone sociale e gli altri a canone concordato. Anche in questo caso, Ecopolis servizi ha gestito i bandi, gli inserimenti degli abitanti, i contratti, il post-vendita, l’avvio della comunità con Fondazione Housing Sociale, e tutto ciò che riguarda la gestione ordinaria: manutenzione, turn over, morosità, conflitti.

Seconda parte

Cooperativa Delta Ecopolis ha una divisione che si occupa della proprietà divisa e realizza appartamenti da vendere o affittare. Recentemente, insieme al Consorzio Cooperativa Lavoratori, ha realizzato nel quartiere di Lambrate Coabita Lambrate, un intervento di 160 appartamenti. Di questi, 100 erano in vendita e 60 in affitto entrando nel patrimonio della proprietà indivisa. “Una volta si riuscivano a realizzare tutti gli appartamenti in indivisa, oggi purtroppo non è possibile”. Ogni progetto è realizzato attraverso una società di scopo, nel caso di Lambrate era stata costituita Ecopolis casa.

Ora invece la Cooperativa è impegnata a Settimo Milanese nella realizzazione di 144 appartamenti, e a Milano all’interno di Città contemporanea, progetto di sviluppo dell’area di Cascina Merlata con 330 appartamenti già realizzati e circa 500, 600 da realizzare. Altri interventi più piccoli sono stati realizzati sempre a Milano, in via Bassi con 9 appartamenti, in zona Certosa insieme alla Cooperativa Abitare, e in zona Niguarda con 60 appartamenti.

Fino agli anni ottanta, la Cooperativa riusciva a costruire e ad affittare. Dagli anni ottanta in poi i costi delle aree sono aumentati molto, per tanto la proprietà indivisa ha avuto una battuta d’arresto. La Cooperativa in quell’occasione cambiò pelle, o meglio sviluppò la parte della proprietà divisa senza però abbandonare mai quella indivisa. Le due anime potevano in qualche modo convivere in maniera sinergica. Con la crisi immobiliare del 2008, la Cooperativa ha messo a fattore comune l’esperienza e la conoscenza di un secolo di storia nella gestione del patrimonio immobiliare, convogliando le tre anime che la compongono: sviluppo immobiliare, gestione del patrimonio immobiliare e gestione del patrimonio proprio. In sintesi: indivisa, divisa, e servizi.

“Insieme a queste tre macro aree, la sfida nella quale siamo impegnati è il rilancio culturale.” conclude Barbieri. “Attraverso Fondazione Cotica si vuole in qualche modo rilanciare il concetto di cooperativa, che non può essere solo il luogo in cui ci si rivolge per avere una casa in affitto o in vendita a condizioni agevolate rispetto al libero mercato. Fondazione Cotica è stata costituita per creare occasioni di aggregazione ad esempio con la partecipazione ad attività culturali, momenti di convivialità e di formazione”.

Una volta raccolte le storie della società di gestione del risparmio, della fondazione di scopo istituita per promuovere lo housing sociale e del gestore sociale, raccolgo la testimonianza di Andrea Capaldi, Co-fondatore Mare Culturale Urbano, soggetto chiave nello sviluppo e la gestione dei progetti di edilizia privata sociale realizzati a Milano negli ultimi anni. A Capaldi chiedo di raccontare come nasce Mare Culturale Urbano, quali obiettivi persegue e che modello di business ha adottato.

“Sono arrivato a Milano come studente di economia aziendale” racconta Andrea Capaldi, Co-fondatore Mare Culturale Urbano, “più per volere della mia famiglia che per mia vocazione, sempre affascinato dal mondo del teatro, della magia e della capacità di far cambiare ed evolvere l'animo delle persone, e arricchire il percorso di vita attraverso la cultura dell'arte performativa. Una sera a Milano vidi uno spettacolo che mi cambiò la vita, pensai che era quello che avrei voluto fare all'anima delle persone. Andai dal regista che aveva messo in scena quello spettacolo e dissi: io voglio fare questo, come devo fare? E lui giustamente disse: ‘Devi studiare’”.

Quello stesso anno Capaldi provò gli esami di ammissione nelle più importanti scuole italiane: il Piccolo Teatro di Milano, la Civica Scuola Di Teatro Paolo Grassi, e l'Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma. Selezioni difficili perché vi partecipavano tanti candidati e i posti disponibili erano pochi. Dopo gli studi, per cinque anni Capaldi fece parte di un collettivo nomade di performers, Balletto civile, con cui partecipò alla produzione di diciotto spettacoli. “Un percorso bellissimo, meraviglioso, sia di vita che professionale” afferma. Un percorso che lo pose anche di fronte al dubbio che questo potesse essere solo un esercizio autoreferenziale, o destinato a una fascia troppo ristretta e privilegiata di persone, quando la sua necessità era di parlare e rivolgersi “chi rimane indietro”, chi non ha la fortuna di essere educato a leggere i codici dell'arte performativa o della cultura.

“Ero molto soddisfatto di dove ero arrivato” continua Capaldi, “ma sentivo tutti i limiti del mio lavoro, così ho deciso di intraprendere un nuovo percorso imprenditoriale, sociale e culturale. Sentivo forte la necessità di avere dei luoghi fisici che potessero diventare casa per gli artisti e luogo di incontro, confronto e crescita con le persone. Ho iniziato a raccogliere attorno a me persone di cui mi fidavo e insieme abbiamo costruito la visione di un luogo multiforme, polifunzionale, una vera e propria piazza aperta da mattina a notte e che potesse mixare attività produttive, profit, ad attività non produttive, non profit, legate alla cultura a impatto sociale”.

Capaldi iniziò la ricerca di uno spazio a Milano perché la città gli sembrava il posto più adatto dove poter realizzare il suo sogno. Trovò uno spazio in disuso in via Novara 75 che il Comune aveva deciso di mettere a bando, mise a punto un progetto dettagliato e cominciò a presentarlo a diversi interlocutori ricevendo ascolto, interesse, e curiosità. Durante le presentazioni Capaldi incontrò prima Fondazione Cariplo e poi Fondazione Housing Sociale. Entrambe le fondazioni gli presentarono il progetto Cenni di Cambiamento, un intervento residenziale che stavano realizzando a pochi passi dal luogo che Capaldi aveva individuato, gli raccontarono che all’interno dell’area di progetto c’era una cascina agricola da rifunzionalizzare che sarebbe stata perfetta per realizzare in scala più piccola ciò che lui aveva in mente per via Novara 75. Così, in attesa di realizzare il progetto più ambizioso, Capaldi accettò la proposta.

Questa cascina del Seicento, che le persone del quartiere conoscono da sempre, apparve a Capaldi il luogo ideale e strategico dove iniziare a proporre il progetto culturale e sociale al quale stava pensando. Nacque così Mare Culturale Urbano, il progetto di riuso di Cascina Torrette con l’intenzione di trasformarla in una piazza, un luogo aperto e senza barriere, un luogo per tutte e tutti in controtendenza rispetto ad altri spazi sempre più chiusi e destinati a categorie specifiche.

“La più bella acrobazia che abbiamo fatto è quella di far star bene insieme persone profondamente diverse tra loro. A Mare Culturale Urbano si trovano nello stesso spazio e allo stesso tempo famiglie con bambini, anziani e ragazzi. I ragazzi del quartiere, che fanno casino e che sono un po’ molesti, stanno insieme ai cinquantenni che mangiano una pizza e bevono una birra, o con i vecchietti che ballano il liscio. Tutto è molto organico e anche sereno.”

“Col senno di poi, l’esserci accreditati con queste istituzioni e aver conquistato la loro fiducia è stata per noi la cosa più importante che è successa in questi anni” confida Capaldi. “Credo sia stato l'incontro giusto anche per loro. Da una parte loro, i promotori di un progetto abitativo proiettato in un futuro sostenibile e nel quale si cerca di far stare bene le persone nel loro spazio più importante: la casa. Dall'altra parte noi, che come vocazione e come professione diamo anima a questi luoghi e creiamo occasioni di scambio, di confronto e di crescita prima individuale e poi collettiva”.

Nonostante le difficoltà dovute alla inattuabilità del progetto di via Novara 75 e nonostante la crisi dovuta alla pandemia da COVID-19, unito a un socio che intuisce le potenzialità del proprio percorso imprenditoriale, Capaldi rilancia il progetto di Mare Culturale Urbano e progetta l’apertura di nuovi locali che ripropongono lo stesso format ma in scala più piccola e in altri quartieri periferici di Milano.

“I due locali aperti a Redo-Merezzate, a un occhio distratto, potrebbero sembrare un semplice bar-pasticceria e una semplice pizzeria-birreria, in realtà sono luoghi animati da funzioni così diverse da essere spazi ibridi” spiega Capaldi. “Nonostante la rigidità della struttura, la pizzeria, che occupa uno spazio di 80 mq con trenta posti a sedere, ospita attività per bambini e famiglie, e attività culturali come piccoli concerti di jazz, di musica indipendente o dj set”.

Sono due spazi piccoli, forse troppo piccoli per una sostenibilità a lungo termine. Se Capaldi dovesse oggi dare un'indicazione a Fondazione Housing Sociale e a Redo Sgr direbbe loro di prevedere spazi più ampi per attività polifunzionali come quelle proposte da Mare Culturale Urbano, proprio per valorizzare l'impatto che queste attività possono avere sul territorio e sui progetti abitativi. Il grande potenziale di Merezzate è però quello di avere un ampio spazio all’aperto, fondamentale per dare una spinta in più al progetto. Mare Culturale Urbano vi ha già portato il Piccolo Teatro di Milano a fare due spettacoli, ha realizzato tre proiezioni di cinema all’aperto, proponendo così una programmazione culturale meno intensa che altrove ma con punte di qualità.

“Per quest’anno abbiamo programmato la residenza artistica di una compagnia che lavora in Francia, Svizzera, Germania, e che crea relazioni sul territorio attraverso le tradizioni culinarie. Faremo un lavoro molto bello sul pane, sui pani delle varie culture, creando momenti individuali tra l'artista, le famiglie e le persone che abitano in questo territorio, per la costruzione di una grande festa che faremo a settembre con la costruzione collettiva di un tavolo e di un forno di comunità che rimarrà in dote al quartiere”.

“E poi c'è tutta la parte di formazione e inserimento lavorativo che continua anche qui. La pizzeria, per esempio, è un laboratorio di formazione. Qui abbiamo formato il pizzaiolo che era partito come lavapiatti, da rifugiato politico, e poi è rimasto a lavorare come primo pizzaiolo. E continueremo in questo processo di affiancamento e di formazione di persone sia del territorio sia di chi arriva da contesti più emergenziali anche fuori Italia.”

Ultime considerazioni sul modello di business, la collaborazione tra Mare Culturale Urbano, Redo Sgr e Fondazione Housing Sociale, la formazione e l’inserimento lavorativo.

Nel modello di business di Mare Culturale Urbano, l’attività di food and beverage consente la sostenibilità economica e margini di guadagno da investire in attività culturali a impatto sociale, oltre ad avere anche una funzione aggregativa, di formazione e inserimento lavorativo per i ragazzi delle periferie in cui opera. Con il tempo, inoltre, si consolida il rapporto con Fondazione Housing Sociale e con Redo Sgr, collaborazione che parte già in fase di progettazione dei luoghi.

“Il primo caso specifico è stato il campo di basket di Merezzate. Qui Redo Sgr e Fondazione Housing Sociale ci hanno chiesto, per esempio, quale cablaggio elettrico fosse più congeniale affinché si potesse fare un'attività culturale e sociale per il territorio. E quindi abbiamo deciso insieme dove mettere i pozzetti dell'elettricità affinché ci potessero essere spettacoli ed eventi di animazione del quartiere. Questo processo sta proseguendo con un progetto più ambizioso che interviene su un’area più vasta, quella dell'ex Macello, dove Mare avrà un posto di mille metri quadrati come la cascina”.

“A Mare Culturale Urbano c'è grande rispetto per le persone e per tutti quelli che vi lavorano. Magari alcuni non se ne accorgono nel mentre, poi vanno via e capiscono. L'idea iniziale era quella di avere 30% delle risorse umane che provenisse da percorsi di formazione e inserimento lavorativo dedicati ai ragazzi delle periferie in cui opera Mare, poi ci siamo fatti un po’ prendere la mano e siamo quasi a 50%. Si è attivato un passaparola molto bello e virtuoso tra i ragazzi che hanno bussato alla nostra porta in cerca di un'opportunità di emancipazione. Hanno scoperto la possibilità di scegliere una strada più sana rispetto a quelle fortemente emergenziali che sono abituati a percorrere. Hanno visto i propri amici lavorare, e grazie al proprio impegno garantirsi un contratto a tempo determinato, un mutuo, una famiglia, un bambino e così via ottenere tutto questo senza spacciare o rubare è un gran risultato”.

Ascolto, infine, le voci degli abitanti. A loro chiedo di raccontare le motivazioni che li hanno spinti a cambiare casa e a trasferirsi nel complesso di Merezzate, quali aspettative avevano e se queste sono state soddisfatte. Chiedo loro di parlare delle relazioni di vicinato e delle iniziative sociali e culturali tese a costruire la comunità.

“Mi chiamo Erica e ho trent’anni. Fino a prima abitavo con i miei genitori mentre il mio compagno in una casa singola vicino al proprio posto di lavoro, un’abitazione scomoda anche per me da raggiungere. Dopo tanti anni di relazione abbiamo deciso di andare a convivere. Ma la nostra età e le nostre condizioni lavorative generali non ci permettevano di accedere al mercato degli affitti di Milano. Tramite il passaparola ci è arrivata la notizia di Merezzate e ci siamo subito lanciati in quest’avventura. Anche con una spinta molto forte da parte mia poiché, essendo una persona estroversa, molto amichevole e socievole, l'idea di andare a vivere in un quartiere in cui le interazioni sociali fossero caldamente raccomandate o comunque aiutate, era una cosa molto positiva”.

“Ci siamo trasferiti a Merezzate due anni fa, nel luglio del 2020, in piena pandemia e non è stato semplice gestire tutto l'iter visto il periodo storico. Però siamo riusciti in qualche modo a cavarcela e ormai sono passati due anni. Per quanto riguarda l'abitazione sono davvero tanto soddisfatta della tipologia abitativa. Siamo stati molto fortunati perché ci è stata assegnata una casa perfetta, ha degli spazi ben calibrati, ben studiati, in cui nulla è lasciato al caso. A questo aspetto si aggiunge la componente sociale, che inizialmente non esisteva semplicemente perché nel condominio siamo stati i primi ad entrare. Poi piano piano con l’arrivo dei vicini abbiamo fatta conoscenza”.

“La maggior parte delle persone che sono entrate qui sono arrivate con uno spirito diverso. Se normalmente ci si ferma a scambiarsi ‘buongiorno e buonasera’, nella stragrande maggioranza delle persone che abita qui ho notato un quid in più nel voler fare due chiacchiere, tant'è che a oggi tra i miei migliori amici ci sono i vicini di casa, persone che frequento al di fuori del quartiere e con cui ci ritroviamo spesso. Poi è chiaro dipende anche da come uno la vive. Non nego che un punto di debolezza, che però esula dal progetto, è che alcuni proprio non hanno voglia di fare questo tipo di attività e non li si può obbligare. Ci si prova, se c'è positività e voglia di mettersi in gioco bene, se no pazienza”.

“Dato che mi piace e ho bisogno di stare in gruppo e conoscere gente nuova, fin dall'inizio ho provato a lanciarmi in attività collettive, sia come rappresentante di scala – ruolo che ho ricoperto per un anno insieme a un mio amico e collega – ma anche in attività più o meno ludiche quali ad esempio organizzare il caffè di quartiere, che è stato tra l'altro un successo. Per motivazioni legate al ‘covid’, queste attività hanno dovuto ridimensionarsi, però qualcosina siamo riusciti a fare”.

“Adesso c'è stata data la possibilità di utilizzare la sala comune. Io non l'ho ancora fatto perché non ne ho avuta l’occasione: le attività organizzate, a mio avviso molto interessanti, erano inconciliabili con i miei impegni. La serata dedicata alla figura della donna, per esempio, l'ho trovata bellissima.”

“Abbiamo a disposizione anche gli spazi aperti, che durante il periodo estivo si prestano a molte attività, anche spontanee. Per esempio, l'anno scorso io e il mio ex collega rappresentante di scala, presi da un moto di entusiasmo, abbiamo organizzato un aperitivo e ci siamo ritrovati in venti-trenta persone senza una reale motivazione. È stato molto, molto bello.”

“Trovo che siano molto importanti queste attività per integrare quelle persone che normalmente farebbero fatica a far parte di una comunità come questa. Faccio un esempio banalissimo. Noi siamo una coppia di trentenni, senza figli. Conosco un sacco di persone che sono padri separati, madri separate che magari vivono da sole. Questo tipo di attività permette anche a chi non fa parte del classico nucleo familiare di integrarsi nella comunità, cosa che normalmente è più complessa. Inoltre essendo più varie garantiscono l'inclusione un po' di tutti, anche di persone straniere. Ad esempio, io ho dei vicini che non parlano bene italiano, coinvolgerli fa sì che possano creare relazioni che normalmente non avrebbero.”

“Ripeto, io sono molto soddisfatta. Chiaramente ci sono i pro e i contro, non è semplice, non è adatto a tutti secondo me. Nel senso che se uno non è propositivo a mio avviso non ha molto senso buttarsi in un progetto come questo, bisogna aver voglia di aprirsi. Ciò non vuol dire che bisogna sempre perennemente partecipare alle attività, però fare un sorriso in più non guasta. Questa è la sintesi della mia idea del progetto”.

Puoi raccontarmi il percorso fatto per ottenere la casa?

“Da un punto di vista burocratico o umano? Perché secondo me sono due cose ben distinte. Hanno viaggiato di pari passo. Questo è un aspetto fondamentale. Ci abbiamo messo tanto. Ovviamente la questione sanitaria non ha aiutato. Ci sono state difficoltà legate a fattori esterni.”

“Abbiamo seguito diverse attività collettive che facevano parte del percorso burocratico, nel senso che uno dei metodi di selezione era anche la partecipazione. Gli incontri ai quali abbiamo partecipato grazie al gestore e a Fondazione Housing Sociale ci hanno permesso di vedere quali potevano essere i nostri futuri vicini, alcuni li abbiamo persi per strada perché hanno rinunciato, ma tanti sono rimasti e la cosa bella è stata proprio quella di arrivare ad abitare e vedere molte delle facce che avevamo conosciuto l'anno prima.”

“Un esempio banale, eravamo stati divisi in squadre, ogni squadra doveva presentare i propri componenti del gruppo, abbiamo fatto una cena e abbiamo valutato quale potesse essere il metodo migliore per presentarci cercando di andare incontro a tutti, anche a quelli che non volevano mettersi in gioco, che non volevano farsi vedere. Abbiamo pensato di realizzare un video di presentazione della nostra squadra e di come immaginavamo il nostro quartiere una volta entrati. Sfruttando un po' le competenze di ognuno abbiamo creato un filmato che poi abbiamo proiettato durante l'attività collettiva. Altri gruppi hanno svolto attività differenti, c'è chi ha portato una scenetta, chi ha portato una canzone. Ed è stato bellissimo perché tutti si sono messi in gioco. Da lì personalmente sono nate alcune delle relazioni che io ancora adesso porto avanti.”

“Chiaramente tutto questo è andato di pari passo con la mera burocrazia, da lì non si scappa, che non è stata semplice però secondo me ne è valsa la pena. Le scadenze sono state abbastanza rigide, perché ci sono tanti documenti da preparare e presentare. Insomma, bisogna starci un po' dietro, non è come il classico affitto in cui vado dal privato, mi metto d'accordo, mi fa vedere la casa, facciamo il contratto e fine. Non è così, è tutto molto più rigido, è tutto anche molto più verificabile. Quindi l'aspetto della burocrazia in realtà è anche una tutela perché tutti fanno lo stesso percorso, c'è un iter da seguire uguale per tutti. Faticoso o meno che sia però è quello. Da lì non si scappa. A mio avviso ci sta, perché in questa tipologia di abitazione ci sono delle categorie, diciamo così, che hanno e devono avere la precedenza altrimenti non sarebbe housing sociale. Quindi è giusto che ci sia questo iter”.

“Sono presidente di un'associazione di volontariato e cooperazione internazionale che si chiama Mirando las Huellas que Vamos Dejando. Sono originaria dell'Ecuador con cittadinanza acquisita da tanto tempo. Prima abitavo a Cologno Monzese, dove ho trascorso un lungo periodo della mia vita in Italia. Mano a mano mi sono integrata nella comunità italiana della quale sono fiera perché ho trovato persone meravigliose che mi hanno aiutato a migliorare la vita.”

“Poi è arrivata da una mia amica la notizia che c’era il progetto di realizzare housing sociale a Milano. Mi sono informata su internet perché per me era un concetto nuovo, una cosa mai sentita. Su internet ho trovato un bellissimo progetto, un’iniziativa di persone che hanno messo il cuore per far diventare un quartiere, quello dove abito ora, davvero bello. Ho controllato i requisiti per partecipare, e ho temuto di non farcela. Mi dicevo: ‘Magari non mi accettano, magari lo housing è per persone che hanno meno reddito’. La mia famiglia ha un reddito medio perché mio marito lavora in una scuola e io in un asilo nido. Pensavamo che non ci avrebbero accettati. Però alla fine siamo riusciti a entrare pur con un ISEE medio.”

“Poi abbiamo fatto un bellissimo percorso durante il quale abbiamo imparato come comportarci nel mondo dello housing sociale. Un percorso che è durato un anno. Abbiamo appreso regole e comportamenti su come vivere in vicinato. Dopo di ché, c'è stata la scelta dell'appartamento. Noi ci saremmo accontentati di un bilocale, per i due ragazzi, me e mio marito. Quando ci hanno data la notizia che c'era la possibilità di avere un trilocale è stata una felicità enorme perché ognuno avrebbe avuto la sua stanza, con il proprio bagno. Vivere veramente in modo dignitoso era quello che io realmente stavo cercando. È stato un bel momento, anche per i ragazzi, per tutta la famiglia.”

“Dopo esserci inseriti nel quartiere, ci hanno dato l'opportunità di usare uno spazio comune per fare attività, per coinvolgere la comunità e conoscerci tutti. Così la mia associazione ha cominciato a collaborare con il gestore sociale, chiedendo questo spazio per realizzare alcune attività. Ad esempio abbiamo coinvolto i ragazzi per partecipare al karaoke, e abbiamo organizzato eventi per l'8 marzo per tutte le donne del quartiere. Sono tantissime le attività che coinvolgono le persone del quartiere. Per me tutto questo percorso è stato meraviglioso. Ci sono anche piccoli problemi, piccole cose che vanno risolte, come un portone che si rompe, ma c'è sempre qualcuno che ci aiuta quando facciamo segnalazioni.”

“Vivere in mezzo al verde, avere un giardino bellissimo. Poter stare in pace. Noi tutti come persone abbiamo bisogno di un po' di spazio verde. Dove abito c'è questo bellissimo giardino con un piccolo parco giochi per i bambini. Quando i miei nipoti vengono a trovarmi andiamo lì a giocare. C'è anche il campo da basket, dove i miei ragazzi che sono grandi vanno a giocare. Abbiamo di tutto, abbiamo anche il supermercato Lidl. Non abbiamo bisogno di fare la spesa, possiamo andare tutti i giorni a fare un po' di spesa lì. Di fronte abbiamo la scuola. Abbiamo un asilo nido”.

Puoi raccontarmi quando e perché hai deciso di lasciare la casa di Cologno Monzese?

“Per otto anni, io e mio marito, abbiamo abitato in un monolocale. Poi sono arrivati i miei due figli dall’Ecuador, di 17 e 19 anni, e vivevano sempre con noi nel monolocale. Questo è stato il motivo che ci ha spinti a cercare qualcosa di meglio. Abbiamo cercato ma i prezzi erano alti, ci chiedevano anche 1.500 euro per un trilocale. E non potevamo permettercelo. A Milano, ma anche a Cologno, è stato difficilissimo cercare casa.”

“Abbiamo fatto fatica a cercare casa. Cercavamo attraverso le agenzie, attraverso i privati, ma niente, non ci siamo riusciti. Abbiamo cercato per parecchio tempo, poi alla fine avevamo rinunciato, stavamo lì in quel monolocale strettissimi. Poi una mia amica che aveva partecipato al progetto di Crescenzago (un altro progetto di Redo Sgr) ci ha suggerito di provare ma non siamo riusciti a entrare perché il bando era già scaduto. Quando abbiamo chiamato, ci hanno detto che a Crescenzago era impossibile, ma che avevano aperto il bando per la zona di Rogoredo, nel quartiere Merezzate.”

“Abbiamo subito preparato i documenti per partecipare al bando. La cosa più difficile è stata fare l'ISEE. Le altre cose erano semplici. Ci siamo rivolti ai centri che aiutano a compilare questi modelli, ci dicevano che il reddito non doveva essere né troppo alto né troppo basso. Noi eravamo nella media. Poi qualcuno mi ha chiamata, mi ha detto che avevano preso in considerazione la nostra domanda, che era stata accettata per partecipare al percorso per avere la casa. È stato bellissimo. Urrà! Eravamo felicissimi. Mio marito diceva: ‘Dov’è che andiamo, cosa faremo là, non ti rendi conto delle spese che avremo, già qua in un monolocale paghiamo tanto... ’ . ‘Va bene’ dicevo io, ‘lavoriamo e facciamo questo’. Però alla fine tutto ci è stato ricompensato perché non paghiamo tanto d'affitto, veramente nella norma. Viviamo bene, abbiamo un bel trilocale.”

“Ci sono state le riunioni. Erano in diversi i posti. Ci mostravano delle slide del progetto. Io ero contenta. Mio marito non era fiducioso, aveva paura della situazione economica. Aveva paura di entrare in un mondo sconosciuto. Uno non sa a cosa va incontro. Io invece ero felicissima perché avevo capito che sarebbe stata una bellissima esperienza. Ho ricordato a mio marito tutto il tempo che abbiamo cercato casa senza trovare nulla e la fortuna poi di trovare qualcosa di bello, di avere l’occasione di vivere in modo dignitoso, credo che questa sia la miglior cosa che possa succedere alle famiglie, alle persone.”

“Poi è arrivata la pandemia e le case non sono state consegnate subito come volevamo. Per noi l'assegnazione della casa era prevista a giugno 2021. Noi dovevamo lasciare l'altra casa perché avevamo già avvertito il proprietario e non potevamo più rimanere là. Questo è stato il momento più difficoltoso. Abbiamo dovuto allungare la permanenza nel monolocale, abbiamo chiesto al gestore sociale di entrare prima, infine a dicembre 2021 ci hanno consegnato la casa. La nostra domanda era per un bilocale, trilocale o quadrilocale. In base al nostro reddito ci hanno assegnato un trilocale. Avere una stanza da letto è stata una fortuna. Nel monolocale avevamo diviso lo spazio con una parete in gesso tra i ragazzi e mio marito. Quindi avere una e propria stanza da letto ci ha fatto cambiare da così a così. Non essendo abituati ad avere una stanza da letto sembrava di abitare in un palazzo”.

Con il trasferimento a Merezzate sono migliorate le relazioni di vicinato?

“Nella casa precedente non avevamo tanto contatto con i vicini. Qui invece c'è più familiarità, almeno nel piano dove abitiamo tutti si conoscono, sappiamo chi siamo e se possiamo darci una mano ci aiutiamo a vicenda. La ragazza che abita vicino a me è argentina, quindi parliamo lo spagnolo e siamo amiche. L'altra vicina che abita accanto a me è egiziana, è una ragazza dolcissima e ci siamo trovate”.

“Prima abitavo in una casa piccolina, che costava tantissimo ed ero dall’altra parte della città anche se già lavoravo in un’azienda che si trova a ottocento metri in linea d’area da qui. Ogni giorno facevo tutta la metro gialla, da Comasina fino a Rogoredo.”

“Un giorno distribuivano alla stazione metro di Rogoredo i volantini di questo progetto. Ne avevo preso uno ma l’avevo messo in tasca senza leggerlo, poi in ufficio l’ho ripreso e ho incominciato a leggere. Mi ricordo che quello che mi aveva colpito era il verde, l’interazione sociale. Era un volantino fatto bene. Ho visto che c’era l’ufficio informazioni vicino alla stazione della metro e una delle mattine successive sono passato di lì. Quando sono arrivato, c’era una coppia che doveva comprare la casa, una signora mi ha accolto e mi ha spiegato come fare la domanda.”

“Una volta consegnati i documenti sono entrato nel concorso, ho aspettato un po’ di tempo per le graduatorie e per gli incontri. Mi ricordo che all’inizio si tenevano in un auditorium a San Siro. Io ero arrivato più o meno in orario, non c’era tanta gente, poi piano piano il teatro si era riempito. Già lì si vedeva che era un gran bel progetto con tantissimo potenziale. C’erano famiglie, c’erano coppie, c’erano giovani, c’erano persone più anziane. È sempre bello vedere un mix di persone insieme.”

“In questo incontro ci hanno anticipato o che avremmo dovuto fare incontri successivi durante i quali ci saremmo divisi in gruppi e fatto delle attività insieme proprio per conoscerci. Questi incontri erano organizzati in una cascina rinnovata con bar, ristorante, cinema, un luogo sociale. Era un bel posto e c’erano enormi saloni. Ci siamo divisi in gruppi e l’idea era di simulare l’organizzazione di un’attività all’interno del quartiere, come ad esempio la banca del tempo, il cineforum, l’orto. Varie attività per sfruttare gli spazi che c’erano e per provare a stare insieme. Io sono appassionato di film e ho portato il mio gruppo verso l’idea di organizzare un cineforum. Alla fine del terzo incontro dovevamo presentare il progetto. Il nostro gruppo aveva fatto un cortometraggio. C’era un signore simpaticissimo, perfetto per interpretare un personaggio comico, e ci siamo inventati questa scenetta in cui due usavano la cucina comune del condominio e man mano che iniziavano ad arrivare altre persone il signore diceva ‘devo cucinare ancora di più, ancora di più’.”

“Dopo gli incontri, che abbiamo fatto nell’estate 2019, è arrivato il ‘covid’. Io continuavo a passare tutti i giorni davanti al cantiere, perché dalla metro per arrivare dove lavoro prendo il bus 88 che passa dalla rotonda qui davanti e quindi vedevo l’avanzamento dei lavori: correvano di brutto. Ci siamo fatti il lockdown. Io me lo sono fatto nella vecchia casa che era un buco. Sarebbe stato molto meglio farlo qui con il giardino e la casa più grande. Finito il lockdown è arrivata l’estate, sono arrivate le assegnazioni, mi hanno dato le chiavi. Sono saliti i miei genitori e nel giro di tre giorni, abbiamo spostato tutta la roba dalla vecchia casa a qui.”

“Una volta che ci siamo trasferiti qui hanno cominciato a organizzare un po’ di call perché all’epoca ci potevamo vedere solo così per organizzarci, per cercare di organizzare le attività. Sono nati diversi gruppi, uno per esempio ha promosso la colazione sociale, ci siamo incontrati davanti alla zona living, ognuno portava il caffè e abbiamo fatto colazione insieme. Ci sono dei gruppi che hanno organizzato lo yoga. Io, l’avevo detto fin dall’inizio, volevo fare il cineforum e mi sono messo in mezzo a quella roba lì.”

“Fortunatamente tante altre persone si sono appassionate e abbiamo creato un bel gruppetto. L’anno scorso eravamo in dodici-tredici a incontrarci su zoom, poi di persona perché nel frattempo erano finite le restrizioni. C’era un ragazzo di Mare Culturale Urbano, l’associazione che ha aperto i locali qui, che si è resa disponibile e ci ha messo in contatto con il Comune e con i fornitori, per le autorizzazioni, per noleggiare l’attrezzatura necessaria alle proiezioni e per pagare i diritti dei film. Siamo riusciti a organizzare il cineforum l’estate scorsa, abbiamo fatto un paio di proiezioni gratuite per tutti, abbiamo messo i post sia sul gruppo del nostro quartiere sia su quello di Santa Giulia e qualcuno è venuto anche da lì. Non c’era tantissima gente, saranno state trentacinque persone a serata però è stato carinissimo perché c’era il fresco della sera, eravamo nel campo da basket con lo schermo grande, un paio di birre per chi beve.”

“Io abitavo in zona Famagosta, la zona dove sono nata e cresciuta. A un certo punto l’edificio dove abitavo è stato acquistato da un’immobiliare che ha deciso di vendere tutti gli appartamenti. Io non avevo intenzione di comprare per cui ho cercato un’altra soluzione abitativa. Prima di Merezzate avevo conosciuto Quintilliano (un altro intervento di housing sociale di Redo Sgr). Io e mio marito ci siamo iscritti e abbiamo partecipato agli incontri. Poi abbiamo saputo anche di Merezzate. Come realtà mi piaceva di più e abbiamo preferito venire qui. Abbiamo vinto l’appartamento e ci siamo trasferiti.”

Cosa l’ha spinta a scegliere un progetto di housing sociale?

“Io sono una persona che ama condividere, che ama conoscere persone nuove e il cohousing mi piaceva in modo particolare proprio per il discorso di cercare, di costruire rapporti con le persone, soprattutto con i vicini di casa. Cosa che a Milano si è persa da parecchio, non si conosce più neppure il vicino di pianerottolo. Questa invece mi sembrava una realtà dove si potesse vivere un vicinato diverso.”

Mi ha raccontato di Quintilliano e poi di Merezzate. Come sono andate le cose?

“Intanto prima mi hanno assegnato una casa a Quintilliano. Siamo andati a vederla ed ero piuttosto triste perché non mi piaceva il contesto. L’appartamento era al primo piano. Poiché ormai dovevo lasciare l’altra casa ho comunque accettato. Aprivo la finestra e c’era una fabbrica dismessa di fronte, c’era un signorino che faceva la pipì lì davanti. Non mi piaceva l’idea di vivere in un contesto del genere. Mi piaceva la possibilità di venire a Merezzate, in un contesto molto più ampio, con più respiro.”

“Abbiamo firmato il contratto e siamo stati tra i primi ad avere un appartamento a luglio 2020. La pandemia è stata un grosso problema perché ha rallentato tutto e non abbiamo potuto vedere gli appartamenti. Abbiamo dovuto prenderli a occhi chiusi. Però ce l’abbiamo fatta, abbiamo iniziato a vivere qua. Le aspettative erano molto alte perché, appunto, io sono una che parla anche con i sassi e ho bisogno di avere gente intorno per condividere. Tante persone le conoscevamo dagli incontri che abbiamo fatto. Poi da subito, da luglio, con un gruppo di abitanti è stato creato un gruppo Facebook. Abbiamo deciso di vederci per capire le problematiche, le difficoltà nel venire. Il primo incontro lo abbiamo fatto da me nella ‘corte della rosa’, di fronte a casa mia, e lì abbiamo cominciato a conoscere più persone. Abbiamo insistito con il gestore sociale affinché si eleggessero dei rappresentanti di scala, perché ritenevamo importante non assillare il gestore con mail tutte uguali della stessa problematica. Istituendo il ruolo di rappresentante di scala abbiamo creato anche le chat di scala e questa è risultata molto utile perché se qualcuno ha un problema scrive lì.”

“Però ci sono delle mele marce, dei personaggi nel quartiere che rovinano tutto quello che sarebbe potuto essere bello. Nella nostra torre abbiamo avuto parecchi problemi di vandalismo, c’è una signora che ha un giardino al pian terreno e nel quale buttano immondizia, è impressionante. C’è gente che non ama il vivere civile. Io sto cercando in tutti i modi possibili e immaginabili (si emoziona, n.d.a.) di porre rimedio, sto chiedendo aiuto alla qualunque per cercare di capire come fare a vivere in modo più tranquillo. Nel nostro caso c’è anche il fatto di avere nella corte il campo da basket, l’area fitness e ludica, e lì è un disastro. Adesso hanno anche vandalizzato le panchine, con scritte sui muri, e cercano di sradicare gli alberi. Questo è un problema serio. Quando si costruisce un quartiere come questo dove il cohousing dovrebbe essere la base bisogna prevedere queste cose perché è impossibile pensare che non ci sia l’imbecille di turno e noi ne abbiamo parecchi. Io ho chiesto di avere un presidio delle forze dell’ordine, di avere dei colloqui con qualcuno di più esperto a risolvere queste situazioni perché noi non lo siamo.”

Quali sono gli spazi comuni che avete a disposizione?

“Abbiamo uno spazio living fantastico che a breve dicono sarà anche attrezzato, io ne ho approfittato immediatamente perché a me piace insegnare quello che ho imparato, quindi ho chiesto se c’era qualcuno che era interessato a fare scrapbooking, che è un hobby di carta con cui si creano decori, album, qualsiasi cosa. Ho trovato un gruppo di otto-nove persone e adesso da qualche mese ci troviamo tutte le settimane a realizzare qualcosa in questo spazio. Questa è una cosa che a me piace da impazzire. A me piace trasmettere quello che ho imparato. Einstein diceva che la creatività è contagiosa e va trasmessa.”

“Noi abbiamo l’occasione di avere un paio d’ore durante le quali ci isoliamo dalla quotidianità, dai problemi, da tante cose per fare quello che ci piace. Purtroppo ho notato che non sono molti quelli che sanno sfruttare queste occasioni, vedo che si fa molta fatica a voler vivere insieme. Di proposte ne sono state fatte diverse. Un altro abitante ha proposto Tai Chi, pilates. Si è dato da fare per portare gli insegnanti, anche in sala living, ma nessuno è interessato. Sono tutti interessati a fare le feste di compleanno, quelle sì. Ma cose a carattere più unitario, vedo che si fa fatica. Io sono convinta che prima o poi ce la faremo a essere un quartiere dove ci si può anche divertire non guardare solo ai problemi che ci sono, che sono effettivi però non ci sono solo i problemi nella vita. Prima o poi ce la faremo”.

Housing: 92 accomodations

Integrative housing services: 275 mq

Local and urban services: 184 mq

Business and shops: 1.267 mq

End of construction site: September 2018

Inhabitants entry: October 2018

Number of accomodations: 92, of which 84 subsidised and controlled rent; 8 reserved by the social services of the Municipality of Padua with an additional discounted rent of 20%.

Accomodations’ dimensions: 45-98 mq

Energy rating: A3, A4

Investors: Fondo Veneto Casa

Fund management and property developement: Investire Sgr

Technical and social advisor: Abitare Veneto

Public/private partnership: _

Architects: Studio Archipolis

Social Manager: Società Cooperativa Città Solare

Dopo Milano mi sposto a Padova dove visito, nel quartiere Crocifisso, l’intervento denominato Qui Padova. Parlo a lungo con Maurizio Trabuio, Direttore Fondazione La Casa, che da molti anni promuove iniziative volte a contrastare il disagio abitativo di famiglie italiane e straniere in difficoltà. A Trabuio chiedo di ricostruire le tappe che hanno portato al progetto di trasformazione urbana di un ex istituto religioso in un centro polifunzionale che include attività lavorative e ricreative, e spazi abitativi e aggregativi per il quartiere.

“Ci troviamo alla periferia di Padova, in un'area che negli anni sessanta fu destinata a ospitare alcune funzioni che non trovavano più spazio nel centro della città” racconta Maurizio Trabuio, Direttore Fondazione La Casa. “Funzioni come le abitazioni popolari, le caserme, gli orfanotrofi per l'assistenza dei minori e gli istituti religiosi che in quel tempo avevano necessità di ampi spazi per il numero delle vocazioni. Così è nato questo quartiere. Un quartiere senza una piazza, solo con una strada che dalla campagna va verso il centro città: via del Commissario, che si chiama in questo modo perché all'inizio della stradina c'era il commissario del dazio addetto a contare i capi di bestiame portati al Foro Boario per essere venduti.”

“Qui, dove siamo noi” prosegue Trabuio, “c'era la scuola missionaria dei Dehoniani, la Congregazione dei sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù. Una congregazione religiosa non molto diffusa in Italia, anche se famosa per la casa editrice Edizioni Dehoniani Bologna. Questo istituto religioso in quegli anni chiese il permesso di entrare nella Diocesi di Padova e il vescovo gli diede la cura pastorale di questa zona di espansione urbana”. Una volta acquistato il terreno, i Dehoniani costruirono la prima cappella del quartiere e la prima canonica, cioè la prima casa dei religiosi. Poi mentre s’insediavano e sviluppavano il loro progetto, ingrandirono la casa per farla diventare l'istituto religioso e contemporaneamente costruirono la chiesa parrocchiale.

“Fu la prima trasformazione dell’edificio” sottolinea Trabuio, “perché quella che era la cappella originaria della Parrocchia divenne l'aula magna della scuola missionaria..Con la trasformazione della prima cappella in aula magna fu poi costruita una cappella interna al seminario che qualcuno riteneva anche di pregio architettonico perché fatta secondo i criteri del concilio vaticano secondo. Quindi uno dei primi esempi di chiesa costruita con l'altare dove il celebrante si riferiva ai fedeli.”

Nel tempo però, a causa della crisi delle vocazioni, l'istituto religioso perse la sua funzione originaria e già a metà degli anni ottanta non c’erano più ragazzi che frequentavano il seminario. In quegli stessi anni, Trabuio partecipò alla costituzione di un’associazione di volontariato con l’obiettivo di promuovere, in altre parti della città di Padova, iniziative di accoglienza per migranti. E nel 1993, costituì una cooperativa che prendeva case in affitto per darle ai migranti che non vi riuscivano in autonomia.

Nel 1996, in cerca di uno spazio ricreativo per gli stranieri che abitavano nelle case della Cooperativa, Trabuio bussò alle porte dell’Istituto dei Dehoniani che aveva frequentato da ragazzo durante il ginnasio. Nei dormitori, oramai vuoti, scoprì che i Dehoniani ospitavano un centro di formazione professionale, che aveva sede nel centro di Padova ma che a causa di lavori di ristrutturazione per alcuni anni si era trasferito lì a fare scuola. Mentre in un’altra parte dell’istituto continuava a vivere la piccola comunità religiosa composta da alcuni preti – cinque o sei – che facevano le loro attività pastorali in giro per la diocesi. Qui Trabuio ritrovò anche un suo compagno di studi che accettò di dare in affitto un garage e una lavanderia.

Dopo un paio di anni la Cooperativa si accorse che il centro interculturale aveva bisogno di un presidio molto più forte, di una direzione culturale, che non poteva garantire perché la propria competenza era di risolvere questioni primarie come la ricerca della casa piuttosto che quella di lavoro. Gli spazi ricreativi furono quindi trasformati in sedi operative di una nuova cooperativa (Cooperativa Sociale Città Solare) che avviò l’attività di svuotamento dei cassonetti gialli della Caritas, un'attività pensata per l'inserimento lavorativo delle fasce più deboli e svantaggiate.

“Uno dei problemi che avevamo avuto come cooperativa che risolveva il disagio abitativo” spiega Trabuio, “era la discontinuità lavorativa di molti degli inquilini e quindi avevamo iniziato a pensare che insieme al problema della casa dovevamo affrontare anche il problema del lavoro. Impegnarsi in attività professionali per l'inserimento lavorativo era la cosa più naturale. E qui abbiamo trovato lo spazio dove mettere insieme le due funzioni. Da una parte l’organizzazione dell'attività ambientale e dall'altra la gestione del patrimonio immobiliare che avevamo in affido. Tra il 1997 e il 1998 Cooperativa Nuovo Villaggio e Cooperativa Città Solare si sono insediate qui”.

Negli anni novanta si susseguirono diverse crisi umanitarie – Albania, Kosovo, Kurdistan – che portarono regolarmente a Padova centinaia di profughi. “Ogni volta venivamo chiamati ai tavoli della Prefettura come cooperativa che gestiva servizi abitativi per migranti, e ogni volta uscivamo sconfortati da questi incontri perché si perdeva tempo a discutere su dove ospitare i profughi che la Prefettura si vedeva assegnati dal Ministero. Ci sembrava inimmaginabile perdere tutto questo tempo per ospitare un centinaio di persone quando a Padova arrivano quattro milioni di persone all'anno per il Santo, per la Fiera, per l'ospedale, per l’Università”.

Fu allora che Trabuio ebbe l’idea di proporre all’allora padre superiore di trasformare i dormitori in un albergo popolare. Uno spazio che contemporaneamente poteva ospitare gente in emergenza, ma anche chi passava per Padova – studenti, lavoratori, familiari di pazienti in ospedale – e aveva bisogno di sostare per un breve periodo in un posto e sentirsi un po' a casa. L'idea trovò riscontro presso i Dehoniani e nel 2001 iniziarono i lavori di ristrutturazione di due piani dell’ex seminario per realizzare quella che fu chiamata Casa a Colori inaugurata nel 2003.

Poi, nel 2008, arrivò un nuovo superiore e i religiosi cominciarono a ragionare alla ridefinizione funzionale delle proprie proprietà immobiliari. Qualcuno spingeva per alienare l’immobile, qualcun altro proponeva di usarlo come roccaforte dove ritirarsi. “C'è stata una fase in cui sembrava che dovevamo andarcene per lasciare gli spazi a loro. Per cui siamo andati a cercare altrove edifici dove poter continuare l’attività di accoglienza e abbiamo iniziato una riflessione sullo housing sociale molto forte e profonda perché uscendo da qui abbiamo capito che l'emergenza e il disagio abitativo riguardava fasce sempre più ampie di popolazione”.

Nel frattempo fu istituita Fondazione La Casa Onlus coinvolgendo altri soggetti come la Camera di Commercio di Padova, le Acli e la Banca popolare Etica proprio perché, uscendo dalla dimensione associativa delle origini ed entrando in quella più professionale, Trabuio e colleghi avevano capito che potevano giocare un ruolo anche nel ridefinire la funzione di questo edificio se avessero avuto la possibilità di tenerlo. Così quando nel 2012 i Dehoniani abbandonarono definitivamente l'idea di tornare a fare la scuola missionaria, la Fondazione trattò per l'acquisto del complesso e, una volta preso l'immobile, progettò una riconversione per destinarlo sia ad alloggi per il lungo periodo, sia come spazi per l'emergenza o il breve periodo e funzioni di servizio per dare sostenibilità all'insieme degli interventi immobiliari immaginati. Un progetto con il minimo delle volumetrie necessarie alla propria sostenibilità economica, capace di ospitare questo insieme di funzioni e contemporaneamente di aprirsi al quartiere attraverso l’eliminazione di tutte le recinzioni esistenti e la realizzazione di quella piazza che mancava fin dalle sue origini.

“L’input che abbiamo dato agli architetti era di ripensare completamente gli spazi per far capire che solo attraverso l'incontro tra le persone, tra categorie e funzioni diverse degli spazi era possibile rigenerare questa porzione di città. Una piazza dove ci si possa incontrare tutti e che tutti possano attraversare. Ci sono voluti quindi sei, sette anni di lavoro per completare il disegno, anche perché, non avendo finanziamenti pubblici di alcun tipo, abbiamo dovuto fare affidamento solo sulle nostre forze. Il risultato finale è stato un insieme di soggetti, la Cooperativa è uno dei proprietari immobiliari di questo complesso, l'altro è il Fondo Veneto Casa. Intanto due proprietà immobiliari. Poi ci sono diverse funzioni e diversi utilizzatori nei due nuclei che compongono questo complesso che abbiamo chiamato Qui Padova”.

Da una parte ci sono le residenze, un centro diurno per anziani e un poliambulatorio. Poi c’è una sala comunitaria a disposizione degli inquilini, ma anche dei vicini delle case popolari o dei complessi immobiliari privati, per organizzare non solo feste di compleanno, ma anche eventi culturali, sociali o iniziative di quartiere. In accordo con il Comune, otto appartamenti sono riservati a persone o famiglie segnalate dai servizi sociali; il poliambulatorio eroga prestazioni gratuite a persone inviate dai servizi sociali. Quattro hanno diritto alla metà del prezzo se inviati dai servizi sociali. C'è in qualche modo una formula di vincolo costante per ognuna delle funzioni che svolgono questi edifici a rapportarsi con la Pubblica amministrazione.

Dall'altra parte, dove c'era l'ex istituto religioso, è stata demolita la chiesa e al suo posto è stata costruita una palestra. Per tanto tempo abbiamo cullato l'idea che potesse diventare una sala convegni ma dovendo fare i conti con la sostenibilità e con le esigenze rappresentate da questo quartiere, abbiamo capito che non c'era la necessità di un auditorium, quanto di spazi per la cura della persona, per lo sport, per il benessere e quindi abbiamo capito che la palestra mancava in questa porzione di città.

L'ex cappella originaria della parrocchia, che poi era diventata l'aula magna, poi libreria, è diventata un ristorante. Gli ex dormitori e le ex aule del seminario sono diventate le stanze di Casa a Colori. L'ex biblioteca, gli uffici del padre superiore e del padre economo, sono diventati uffici direttivi delle cooperative, inserimento lavorativo, inserimento abitativo con l'amministrazione, attività di direzione accoglienza migranti che continuiamo a fare in case sparse in giro per la città.

Quello che era il luogo della clausura, l'appartamento delle suore è diventato la reception e il back office quindi il luogo di primo incontro con qualsiasi esigenza. Tutti gli spazi corollari, la mensa, gli spazi di foresteria sono diventati uffici dove trovano ospitalità associazioni, cooperative e professionisti che pagando l'affitto ci aiutano a sostenere il mutuo che dobbiamo rimborsare alla banca per l'intervento di rigenerazione urbana.

“Noi non abbiamo mai pensato che la risposta giusta fosse fare la casa per le vittime di tratta oppure la casa per i minori stranieri non accompagnati oppure la casa per i migranti o profughi. Abbiamo accolto tutte queste persone in questi anni e continueremo ad accoglierle in funzione delle esigenze che ci vengono rappresentate, ma non siamo la casa di una categoria, siamo uno spazio dove i bisogni possono trovare una risposta. Non saremo mai la risposta a tutti i bisogni ma saremo un’attenzione ai bisogni diversi per cercare insieme al portatore di bisogni una nuova soluzione”.

Dopo Trabuio incontro Eleonora Cunico, Responsabile dei servizi dell’abitare Cooperativa Città Solare. A lei chiedo di illustrare il lavoro che ha svolto, e che tuttora svolge, per la costruzione e l’animazione della comunità di abitanti.

“Per il progetto Qui Padova” racconta Eleonora Cunico, Responsabile dei servizi dell’abitare Cooperativa Città Solare, “mi occupo delle attività di costruzione e di animazione della comunità di abitanti, e delle realtà che operano all'interno e all'intorno di Qui Padova. Qui Padova è un piccolo intervento di rigenerazione urbana, promosso e ideato da Fondazione La Casa, Cooperativa Città Solare, Cooperativa Nuovo villaggio e altre realtà del territorio. L'intervento comprende la ristrutturazione e la riqualificazione della nostra sede con l’ampliamento di Casa a Colori, che è una struttura ricettiva destinata a turisti, city user, studenti e persone o famiglie in emergenza abitativa. Queste ultime sono inviate dai servizi sociali dei comuni della provincia di Padova, dopo uno sfratto e in attesa che i servizi sociali trovino una nuova soluzione abitativa.”

“Oltre all'ampliamento di Casa a Colori” continua Cunico, “è stata costruita una palestra, che è in gestione a un ente esterno, ed è stato costruito un nuovo fabbricato di uffici affittati ad associazioni e cooperative che operano sul territorio e a livello nazionale. Inoltre è stato realizzato un ristorante di prossima apertura che si chiamerà Qui mangio. Infine, con il finanziamento di Fondo Veneto Casa, sono state costruite quattro palazzine con novantadue appartamenti, di cui otto destinati a nuclei inviati dai servizi sociali del Comune di Padova. Gli altri invece in locazione, almeno per i primi sedici anni, con contratti di affitto a canone concordato. Ai piani terra inoltre ci sono servizi aperti al territorio: un centro diurno per anziani e un poliambulatorio specialistico. Sempre al piano terra c’è lo spazio più importante, quello dedicato alle attività di animazione di comunità. Si tratta di una sala che gli inquilini, insieme al gestore sociale, hanno deciso come potrà essere utilizzata e anche come autotassarsi per pagare le utenze e le attività necessarie al suo mantenimento”.

Quando avete iniziato a raccontare il progetto ai cittadini?

“Il racconto del progetto al quartiere è iniziato durante la fase di costruzione delle quattro palazzine di housing sociale” spiega Cunico, “perché bisognava spiegare ai residenti che non si trattava della costruzione di altre case popolari – ci sono già diciotto palazzine di case popolari nei dintorni –, ma di nuove opportunità abitative per le persone che sul libero mercato farebbero molta fatica a trovare un affitto”.

“In quel periodo il gestore sociale ha organizzato tre incontri, uno nel quartiere e altri due nel territorio del Comune di Padova, con la finalità di raccontare il progetto e cercare di spiegare ai cittadini che l’intenzione non era solo quella di costruire palazzine per poi affittarle. Dopo queste presentazioni è stato organizzato un altro appuntamento, questa volta rivolto principalmente alle persone che si erano dichiarate interessate ad andare ad abitare nel complesso in costruzione. Vi hanno partecipato in tanti, alcuni sono arrivati anche da fuori regione perché volevano capire qual era l'idea di fondo attorno al progetto, che a differenza di altri interventi di housing sociale nel territorio padovano era l'unico che offriva oltre alle residenze anche dei servizi.”

“Una volta completate le palazzine è uscito un avviso” precisa Cunico. “Funziona così per tutti gli interventi di housing sociale fatti con un fondo immobiliare: finita la costruzione dell'edificio o poco prima della fine della costruzione, viene pubblicato un avviso pubblico. L'avviso non è un bando vero e proprio come farebbe un comune, ma illustra il progetto di housing sociale, racconta quali sono gli appartamenti disponibili e invita le persone a candidarsi. Le persone rispondono all'avviso compilando una modulistica e fornendo le informazioni richieste, ad esempio devono dimostrare, nel caso specifico di Qui abito, di non avere una casa di proprietà nel raggio di cinquanta chilometri, di avere un ISEE massimo di sessanta mila euro e di avere un reddito almeno due volte e mezzo superiore al canone d'affitto.”

“Abbiamo tenuto aperto l'avviso per un mese circa, l'ultimo giorno ho preso la centesima domanda. Ricevere cento domande su novantadue appartamenti è stata una grande soddisfazione, era la prima volta che avevamo un numero così grande di appartamenti e non ci aspettavamo questo riscontro. Il dato va letto come un segnale della necessità di avere case nuove a canone convenzionato nel territorio di Padova e anche della volontà delle persone di partecipare a un progetto che auspica la costruzione di una comunità”.

“Entro i primi otto mesi sono stati assegnati tutti gli appartamenti, a eccezione di quelli del Comune, le cui segnalazioni sono state molto oculate perché, non essendo case popolari, chi vi accede deve dimostrare di poter pagare l’affitto. Per tutto il primo anno successivo all'inserimento sono stati organizzati diversi incontri con gli inquilini durante i quali il gestore sociale ha costruito un rapporto amicale e di confidenza reciproca, necessaria affinché gli abitanti raccontassero cosa si aspettavano dal progetto e, a sua volta, il gestore cosa sarebbe stato in grado di proporre e fino a dove avrebbe voluto spingersi.”

“Fin dall'inizio abbiamo tentato un mix di entrambe le proposte: cosa vorresti tu e cosa possiamo fare noi per te. Poi abbiamo messo gli inquilini alla prova. In sei mesi si sono auto organizzati in un'attività molto semplice, un aperitivo, durante la quale hanno scoperte le difficoltà dell’abitare in comunità. Nel senso che non è difficile organizzare un aperitivo qualunque, però un conto è partecipare a un’attività già organizzata per novantadue famiglie, un altro è doverlo autogestire. E quindi si è subito distinto il gruppo di quelli più attivi e quello dei partecipanti.”

“Negli anni il gruppo degli attivatori è rimasto più o meno invariato, mentre quello dei partecipanti si è ulteriormente distinto tra quelli che hanno voglia di partecipare ma non hanno tempo, quelli che non hanno nessuna propensione all’organizzazione autonoma, e quelli che proprio non sono interessati”. Il gestore sociale ha poi capito, analizzando le attività svolte, che le persone raggiunte tramite l'avviso pubblico erano attivatori o comunque soggetti partecipi. Invece quelle che si sono interfacciate con l'agenzia immobiliare sono risultate le meno partecipi nella comunità. Il loro spirito è diverso, sono solo in cerca di una casa, di un luogo dove abitare, per rispondere alle proprie esigenze abitative. Mentre chi ha partecipato all'avviso è venuto perché aveva anche altre esigenze.

“Insomma, gli inquilini si sono conosciuti, si sono studiati e hanno costruito una rete amicale. Adesso chi ha dovuto lasciare gli appartamenti, perché si è trasferito per lavoro, l’ha fatto con difficoltà, lasciando una rete di amicizie importante. Soprattutto durante il periodo del lockdown gli abitanti si sono tanto uniti tra di loro, si sono auto animati, così tanto che facevano la tombola dal balcone, un sacco di giochi, e anche la ginnastica. Assecondando le peculiarità di ciascuno, delle proprie esperienze di vita, si sono offerti momenti di animazione oppure attività ludiche ‘dal balcone’. Ma si sono così tanto auto animati che, finito il periodo di lockdown, hanno allentato la attività di comunità; quindi abbiamo approfittato di questo momento per ampliare nuovamente l’animazione ai cittadini che abitano il quartiere e ai residenti delle palazzine ATER che durante il lockdown venivano a chiedere di soppiatto: ‘Possiamo partecipare anche noi alle vostre attività di animazione che per noi nessuno fa niente, non sappiamo come passare la giornata’. Quindi adesso ci sono molti residenti del quartiere che partecipano attivamente a tutte le iniziative e anzi è più facile che siano proprio loro a proporci le attività da fare assieme più che gli inquilini stessi, che ne hanno già fatte tante.”

“Al contempo, questo momento di vuoto e di calo nelle relazioni tra inquilini ha permesso di instaurare nuove reti e nuove collaborazioni con i servizi all'interno di Qui Padova. Con un'associazione sportiva la prossima domenica faremo delle attività di orienteering nel quartiere. Con i gestori della palestra abbiamo organizzato un'altra giornata di sport aperta a tutti durante la festa dei vicini di casa. Con il ristorante, quando avverrà l'apertura, sono previste attività di animazione per gli anziani come ‘il tè con gli anziani’. Tutte attività che finora potevamo proporre solo noi o che appunto era difficile attivare. Invece, dal momento in cui gli inquilini hanno apertamente dichiarato ‘va bene, per adesso noi ci siamo tanto animati ma adesso aiutateci voi ad animarci’ abbiamo iniziato noi a proporre nuove attività con tutti i servizi di Qui Padova”.

Per organizzare queste attività avete a disposizione dei fondi?

“Purtroppo non esistono fondi già destinati alla promozione di attività di animazione di comunità. Noi ci occupiamo quindi di progettare e ricercare altri fondi a sostegno di tutte queste attività. Nell'ultimo anno e mezzo siamo spesso stati capofila in progetti promossi dalla Regione o altri progetti. Ne abbiamo scritto uno anche del Mibact. Le attività che non riusciamo a finanziare o vengono riviste in termini di spesa oppure non riusciamo a metterle in atto”.

“Dall'anno scorso, inoltre, con Fondazione La Casa abbiamo attivato il Servizio civile universale per poter avere forze giovani che ci aiutino nella realizzazione di queste attività. Così se non abbiamo i fondi per fare i laboratori di auto costruzione come vorremmo fare, possiamo comunque inventare attività low cost grazie a menti e braccia che ci possono aiutare. Le ragazze del Servizio civile quest'anno si sono distinte. Hanno attivato anche nuovi canali comunicativi: la pagina Instagram è stata la prima. E funziona perché, anche con altri interventi di housing sociale che gestiamo, le proposte che riusciamo a fare anche low cost si rivelano occasioni per agganciare ulteriormente i residenti e i nuovi inquilini, perché il turnover è già cominciato. Ed è giusto che sia così perché uno degli obiettivi dello housing sociale è dare opportunità abitative anche di medio periodo. Molte giovani coppie che hanno sperimentato l'abitare insieme adesso lasciano per comprare casa, per esempio”.

Come gestite la selezione dei nuovi inquilini?

“La procedura di selezione rimane invariata anche quando bisogna cambiare inquilino. I requisiti oggettivi e soggettivi sono gli stessi di prima, non cambiano mai, anzi abbiamo una lista d'attesa aperta in cui si può fare domanda e, se in un paio di mesi si libera qualcosa che corrisponde alla richiesta, le persone vengono contattate”.

Avete un profilo tipo d’inquilino al quale vi rivolgete?

“L'idea iniziale era di attrarre possibilmente molti giovani e ci siamo riusciti perché le coppie giovani sono tantissime, tant'è che ormai siamo quasi al settimo-ottavo bambino nato dall’inizio del progetto. E tutto il quartiere ne ha risentito positivamente perché c'è il centro parrocchiale con le animazioni per i bambini, c'è la scuola materna, c'è l'asilo nido che ha aperto da poco. Insomma tutti i residenti sono contenti che ci sia nuova gioventù perché finalmente si anima un po' la zona. Ecco, questo è l'unico obiettivo che ci eravamo dati. Poi, ovviamente, è anche la richiesta che ha condizionato il mix di abitanti che si è insediato.”

"Soprattutto nella fase iniziale, quando avevamo l’avviso aperto, abbiamo molto semplicemente stampato le planimetrie degli appartamenti con tutte le facce delle persone così ci siamo resi conto effettivamente che cosa stavamo creando nella singola palazzina. È un metodo molto efficace perché le richieste sono tante e si fa fatica a ricordare i nominativi senza un'identificazione grafica. Questa operazione ci ha anche consentito di lavorare al meglio nell’assegnazione, ad esempio abbiamo evitato di collocare troppe persone anziane vicine o confinanti con famiglie con bambini piccoli che potevano essere di disturbo. Questa attività di proposta di distribuzione dei nuclei si può fare solo all'avvio mentre in seguito è difficile da mantenere perché non è preventivabile quando va via una famiglia, anche se si cerca di salvaguardare la stessa composizione. Però è difficile perché le richieste cambiano tantissimo”

Tra le attività che hanno aperto a Qui Padova c’è il Centro diurno Sine Die. Sono andato a visitarlo e ho chiesto a Nadia Dengo, la Responsabile, di raccontare com’è nata l’idea, quale servizio offre e a chi è destinato.

“Sono un’infermiera” racconta Nadia Dengo, Responsabile del Centro diurno Sine Die, “ho lavorato per molti anni in rianimazione, nei reparti d’urgenza. Non volevo rimanere incastrata in un ambiente pubblico e ho deciso di cambiare. Inizialmente ho pensato di avviare un'attività inerente alla mia professione, quindi ho aperto un centro di assistenza domiciliare, il quale faceva assistenza a domicilio con operatori socio sanitari ma anche con professionisti come infermieri. Qualche anno dopo sono stata contattata da Maurizio Trabuio, il quale mi ha parlato del progetto Qui Padova, che mi ha entusiasmato immediatamente. La struttura c'era già, lui aveva bisogno di qualcuno che potesse gestirla, che sapesse renderla funzionale e funzionante.”

“Questo progetto è molto ambizioso” continua Dengo, “perché a Padova non ci sono centri diurni esterni alle residenze sanitarie assistenziali, e il fatto di avere un luogo proprio distaccato, in un contesto a sé, rende l'anziano molto più favorevole nell’accedere a questo tipo di struttura”.

“Il Centro affaccia su una piazza verde e ha ampie vetrate che lo rendono molto luminoso. Lo spazio interno, di trecento metri quadrati, è diviso in due parti. Da un lato c’è un’ampia sala dove possono essere svolte diverse attività, ci sono gli uffici amministrativi e un bagno che può essere utilizzato dagli ospiti con l’ausilio di personale qualificato. Dall'altro lato ci sono un salone e un soggiorno con cucina dove è possibile consumare un pasto e trascorrere momenti di convivialità, fare conversazioni, guardare la televisione oppure leggere il giornale.”

“È uno spazio pensato per trenta persone” spiega Dengo, “ma con una frequentazione libera nel senso che si può scegliere di frequentare il Centro tutti i giorni o solo alcuni oppure solo la mattina o solo il pomeriggio. Questo perché voglio che le famiglie lo usufruiscano secondo le proprie effettive necessità, non come un'imposizione, cioè deve esserci una libertà. Questo Centro noi lo vogliamo aperto tutti i giorni proprio per dare un servizio in più, quel qualcosa che nelle altre strutture manca che è appunto la possibilità di dare sollievo alla famiglia. Molte volte il problema non è solo l'anziano ma anche la famiglia che deve accudire e trovare una sistemazione adeguata e dignitosa per i propri cari.”

“Il Centro diurno Sine Die” conclude Dengo, “vuole essere una struttura intermedia tra il paziente, il medico di base e l’ospedale. Vuole evitare così l’ospedalizzazione dell'anziano dandogli la possibilità di recuperare. Un anziano diabetico con valori di glicemia alti può avere, in alcuni momenti della sua vita, la necessità di essere controllato per capire se la terapia che sta seguendo è corretta, se a pranzo o a cena mangia in modo giusto. Andare al Centro gli consente di essere seguito giornalmente, per il periodo necessario, fino a rimettere in quadro la terapia ed eventualmente anche a ricevere informazioni più precise sull’alimentazione. Oppure se un anziano ha bisogno di fare un'attività riabilitativa specifica, anziché essere accompagnato al centro riabilitativo, impegnando una persona ad andare a prenderlo, portarlo a fare la riabilitazione, attendere un'ora e riportarlo a casa, può andare al Sine Die a fare la riabilitazione e nel frattempo utilizzare tutta la struttura, socializzare, incontrare persone, fare attività che possono essere di suo gradimento e dopo un periodo di tempo ritornare alla propria normalità”.

“Ho sempre lavorato in ambito sportivo ma poi ho deciso di cambiare attività, complici anche le poche garanzie dal punto di vista contrattuale. Bellissimo lavoro ma senza solidità nei contratti, che erano a ingaggio. Man mano che mi avvicinavo ai cinquant’anni sentivo che volevo avere qualche certezza in più. Mi sono rimesso sul mercato e ho trovato lavoro per la cooperativa Città Solare. Sono subito stato accolto come un pari, come in una famiglia. Mi hanno detto: ‘Dai, porta qualcosa da mangiare, ti presenti’. E così ho fatto, ho portato da mangiare e sono stato presentato a tutti, è stata una grande festa.”.

“Lavorando per la Cooperativa ho scoperto che gestisce una parte del progetto Qui Padova, e quindi quello che è lo housing sociale. In quel momento, io e la mia compagna avevamo un contratto d'affitto che sarebbe scaduto a breve, dopo un anno, così abbiamo iniziato a farci un pensierino. Vivevamo in periferia perché lavoravamo in zona, cambiando attività non aveva più senso stare in provincia, peraltro non così entusiasmante. Non ci sono servizi, non c’è nulla, bisogna avere la macchina per fare qualsiasi cosa. E allora parlando con la Cooperativa ho detto: ‘Quando si libera un appartamento fatemi sapere’.”

“Poi cos’è successo? Nessuno mi ha più detto niente. Per caso su immobiliare.it ho trovato l'annuncio di una signora, una mia collega, che metteva in affitto il suo appartamento. Allora ho chiamato la Cooperativa e ho detto: ‘Ma si è liberato un appartamento?’. Mi hanno detto: ‘Sì, l'abbiamo messo online’. ‘E dirmi qualcosa?’. Così io e la mia compagna ci abbiamo fatto un pensierino. Abbiamo fatto il concorso, alla velocità della luce, procurato l’ISEE e gli altri documenti. In realtà non è così complicata la procedura. Siccome ci sono molti cittadini stranieri è veramente basica. C'è un questionario da compilare, bisogna avere un minimo di reddito per pagare gli affitti, ma senza sforare un limite massimo.”

“In pratica, abbiamo presentato la domanda, hanno fatto la valutazione, siamo entrati in graduatoria, ed è scoppiata la pandemia quindi non potevamo andare a vedere l’appartamento. Poi a maggio, appena hanno sbloccato le ‘frontiere’, come dico io, siamo potuti venire a vedere l’appartamento. C'è stato l’ok e a giugno ci siamo trasferiti.”

“Noi abbiamo cinquant'anni, di condomini ne abbiamo visti tanti, ma qua è un altro mondo, davvero, è come essere in un luogo culturalmente più avanzato rispetto a come eravamo abituati, dove ci sono solitamente liti per rumori. La base della convivenza in Qui abito è la struttura, cioè come sono stati concepiti architettonicamente questi edifici perché gli appartamenti sono isolati acusticamente e termicamente, quindi anche se ciascuno di noi ha degli orari di lavoro, non disturba gli altri.”

“Nelle altre realtà la vita di comunità era invece molto difficile perché negli appartamenti si sentono tutti i rumori dei vicini, e qualsiasi rumore diventava motivo di attrito tra i condomini. Spesso i rapporti si rompono proprio per questo. Ognuno di noi vive in modo diverso a casa propria e capita che qualcuno voglia ascoltare la musica mentre un altro riposare. A Qui abito non si sente nulla, quando si è dentro il proprio appartamento è come essere in una casa indipendente, non si dà fastidio a nessuno. I nostri vicini hanno una bambina piccola che piange. È nata appena siamo arrivati noi. ‘Diteci se sentite’. Mai sentita, non si sente nulla. La base della convivenza è prima di tutto avere appartamenti come questi ben isolati, dove ciascuno può avere i propri ritmi di vita. Mentre all’esterno si possono svolgere tutte le attività di coinvolgimento per gli abitanti di Qui Abito, tutte le iniziative che creano comunità”.

Le attività per gli abitanti sono tutte organizzate dal gestore sociale?

“Gli eventi più grandi sono organizzati dal gestore sociale, poi ci sono iniziative personali. Ogni condominio ha una propria chat e un responsabile di scala, quindi chiunque abbia un'idea da proporre può confrontarsi con gli altri molto velocemente e in seguito il responsabile di scala può portare la proposta al gestore sociale; anche i responsabili di scala possono parlare tra di loro e organizzare iniziative. All'interno di uno dei complessi c'è la sala Qui Abito uno spazio libero, a disposizione di tutti per organizzare eventi. Quindi le iniziative possono nascere da entrambi i lati. Abbiamo a disposizione degli spazi da usare gratuitamente, se si vuole organizzare una festa c'è la sala, basta comunicarlo e organizzare. Poi sta al promotore invitare gli ospiti, i vicini di casa, i parenti o altre persone. Le potenzialità sono infinite.”

“Abbiamo visto che il prato durante l'estate non era irrigato perché non hanno fatto il sistema di irrigazione, allora ci siamo riuniti, ne abbiamo parlato e abbiamo organizzato dei turni di irrigazione. Questo tipo di attività vengono organizzate grazie alle riunioni, agli spazi di discussione, all'iniziativa dei condomini che collaborano con il gestore sociale. Doppia valenza sia pratica che ludica. Chiamare un amministratore di condominio per lamentarsi che il prato non viene irrigato è diverso dal mettersi d'accordo tra condomini per dare l’acqua. È un modo completamente diverso di affrontare la vita. Di recente, per fare un esempio, si è bloccato l'ascensore. Mi sono accorto che non funzionava e ho iniziato a bussare a tutti i piani, poi ho scritto in chat, e fino a che non sono arrivati i tecnici a ripararlo ci siamo autogestiti in questo modo: chi aveva bisogno di aiuto per portare su la spesa scriveva in chat o chiamava chi si era reso disponibile a portare su la spesa, come i ragazzi più giovani della scala. È stato un evento infausto, però il lato positivo c’è stato.”

“Altra cosa stupidissima. Un giorno ho incontrato un vicino sulle scale che mi dice di aver trovato tutte le porte spalancate. Allora ogni volta che passo le chiudo, non le lascio aperte perché ci tengo agli altri. Se lasciamo le porte aperte troviamo i volantini sotto la porta di casa. I pacchi, invece, vengono lasciati all'ingresso, e se qualche vicino di pianerottolo li trova prima gentilmente li mette davanti alla porta di casa del destinatario per non lasciarli giù dove passano tutti”.

Quanto è importante per gli abitanti l’attività del gestore sociale?

“Noi paghiamo l’affitto a una società che si chiama Investire e che ha sede a Milano. Se dovessi rivolgermi a questa società ogni volta che ho bisogno di mandare la segnalazione di un guasto, aspettare che apra l’ufficio, che capiscano cosa fare, che mandino qualcuno qui a controllare, che venga aggiustato il guasto, passerebbe molto tempo. Avere invece un gestore sociale rende tutto molto più veloce perché posso delegare. Se segnalo un problema, il gestore interviene immediatamente perché ha il contatto diretto e margine di decisione su tante cose, quindi prima fanno partire l'intervento e poi avvisano la proprietà.”

“Anche se si fa la manutenzione ordinaria capita che si blocchino gli scarichi, le fognature. In strutture come queste ci sono molte problematiche che coinvolgono tante famiglie. Il gestore sociale è un'ottima risorsa perché ci consente un riscontro diretto. Nell'abitazione dove eravamo prima il padrone di casa viveva in Liguria. Ci dovevamo arrangiare su tutto. Noi anticipavamo le spese e poi le detraevamo dall'affitto. In otto anni lui non si è mai visto. E in otto anni in un appartamento ci sono molte cose che accadono.”

Anche a Padova ho voluto ascoltare la voce di alcuni abitanti. A loro ho chiesto di spiegare le ragioni che li hanno spinti a cambiare casa e com’è cambiata la qualità della loro vita e delle relazioni di vicinato da quando si sono trasferiti nella nuova abitazione.

“Io vivo in Qui abito da quasi tre anni e mezzo. È stata una fortuna spostarsi qui perché nella precedente abitazione, un bell'appartamento non tanto lontano dal quartiere, avevo diversi problemi e le risposte dall’amministratore tardavano. Allora, quando è iniziata la ricerca, da parte dei colleghi di Qui abito, di persone nuove da inserire, ho presentato la domanda. Fondamentalmente io sono un tipo molto tranquillo, non avevo voglia di sbattermi per cercare un'altra abitazione, c'era quest’opportunità, l’ho colta, ho presentato la domanda, l’hanno accettata, mi hanno fatto fare il giro per scegliere l’appartamento e sono entrato.”

“Mi piaceva l’idea di essere molto vicino al lavoro, di non dover prendere la macchina, di scendere da casa e fare una passeggiata. Mi stimolava molto anche il progetto di comunità e avevo voglia di vivere di più questo quartiere, che frequento da molto tempo per motivi di lavoro. Inoltre ero attirato dall'idea di abitare in case nuove, ma anche e soprattutto di essere seguito da un gestore sociale perché venivo da un'esperienza totalmente negativa in un complesso edilizio abitato prevalentemente da persone immigrate e anziane, dove non ci si parlava e quando si bloccava l’ascensore stavamo settimane senza. Anche la posizione ha influito molto perché siamo vicini all'uscita dalla tangenziale, vicini al centro, in una zona abbastanza tranquilla, che sembra quasi un piccolo paesino, e con il supermercato di fronte casa”.

Qual è il rapporto con gli altri inquilini?

“Nel mio edificio abitano per la maggior parte famiglie, ma ci sono anche molte coppie giovani, magari alla prima esperienza di convivenza fuori dalle rispettive famiglie. Da quando vivo a Padova, cioè da più di vent’anni, ho sempre abitato in appartamento, ho ormai una certa dimestichezza e a tante cose non ci penso neanche, invece le coppie giovani si lamentano se sentono i passi pesanti di chi cammina al piano sopra. Però tutto sommato c'è un buon rapporto con i vicini, io vivo al secondo piano, c’è una coppia che ha due gatti e un'altra che ha un cane, i gatti sconfinano molto tranquillamente, entrano, fanno un giro in casa, mi fanno compagnia”.

In ogni palazzina c’è un rappresentante di scala che fa da tramite tra gli inquilini e il gestore. Qual è il tuo giudizio su questo tipo di organizzazione?

“La mia esperienza è molto positiva, ho un buon rapporto con il responsabile di scala, che è molto presente, disponibile, puntale nelle segnalazioni, si fa carico dei problemi e ogni tanto lo aiuto perché è giusto anche che non si smazzi da solo tutte le incombenze. Il fatto poi che lui si relazioni direttamente con il gestore sociale aiuta perché sapendo che ci pensa lui, io sono più tranquillo, e fa risparmiare tempo a tutti”.

Come valuta l’ampia piazza verde su cui affacciano gli edifici di Qui Abito?

“È molto bello che ci sia il parco davanti alle palazzine, soprattutto nei periodi primaverili e nei fine settimana. In passato ho vissuto in un altro quartiere di Padova dove il fine settimana era come se si spegnessero le luci, qua invece c'è un parco dove vengono a giocare i bambini e c'è sempre vita, c'è sempre movimento, ci sono iniziative come lo scambio dei vestiti o quello dei giochi da tavola. Non tutti gli inquilini riescono a cogliere l'importanza di costruire relazioni, però è bello che ci siano queste iniziative.”

“Vengono fatte delle attività anche con altre associazioni del quartiere proprio per cercare di rianimarlo. Io non riesco a partecipare a tutte. Ma a prescindere dal fatto di poter o non poter partecipare, il parco attira tanto e dà quella sensazione, quella consapevolezza che c'è vita intorno a sé. All'inizio la mia preoccupazione era che questo quartiere rispecchiasse molto quello dove abitavo prima. Qua invece c'è la luce accesa, c'è vita, c'è movimento, c'è volontà di coinvolgimento. Che poi dopo le persone abbiano tutte la voglia di farsi coinvolgere è un altro discorso. Però prendersi cura del verde tutte le estati con il capo scala, innaffiare le piante, fare due chiacchiere, tutto questo è figo.”

Housing: 118 accomodations

Integrative housing services: 90 mq

Local and urban services:

Business and shops: 300 mq

End of construction site: 2014

Inhabitants entry: January 2016

Number of accomodations: 118, of which 59 subsidised and controlled rents, 32 rent at an agreed fee, 21 leased to third sector entities for housing-related educational services and 6 in property.

Accomodations’ dimensions: 43-175 mq

Energy rating: A

Investors: Investire Sgr (per conto di Fondo Immobiliare Lombardia)

Fund management and property developement: Redo Sgr

Technical and social advisor: Fondazione Casa Amica - Consorzio SBAM!

Public/private partnership: Comune di Bergamo

Social Manager: Consorzio SBAM! - Fondazione Casa Amica

Dopo Padova mi sposto a Bergamo dove visito la sede di Fondazione Casa Amica. Mi riceve il Presidente Massimo Monzani al quale chiedo di raccontare la storia della Fondazione, dalle origini ai nostri giorni.

“Non si può parlare di Casa Amica senza accennare alla figura di Don Gianni Chiesa”, racconta Massimo Monzani, Presidente Fondazione Casa Amica. “Chiesa è stato uno dei primi preti operai che ha vissuto e operato nella realtà bergamasca. A un certo punto della sua vita, incrociò il tema dell'immigrazione e delle problematiche connesse e divenne attore del primo ufficio stranieri di Bergamo”.

Quando, agli inizi degli anni novanta, dall’Albania, in poche settimane, arrivarono migliaia d’immigrati sul territorio nazionale e la loro ospitalità fu gestita dalle pubbliche amministrazioni attraverso l'utilizzo delle caserme, creando una situazione incredibile di degrado sociale e umano, Chiesa ebbe l'intuizione di costruire un progetto che consentisse l'avvio di un secondo livello di accoglienza per dare un'abitazione dignitosa alle persone accolte e per accompagnarle verso un inserimento sociale attraverso le realtà più attente del territorio, in particolare modo il mondo del volontariato e della chiesa cattolica. Così nacque l'idea dell'associazione Casa Amica che su proposta di Chiesa fu realizzata con il contributo essenziale del Comune di Bergamo e dell'amministrazione provinciale. L’associazione aveva una base molto importante di volontariato mutuato soprattutto dagli oratori che si occupavano di accompagnare le persone, soprattutto maschi giovani, che venivano da un mondo completamente diverso da quello nel quale si trovavano

L'iniziativa di Chiesa ebbe un impatto incredibile sia sul piano della positività che della operatività, perché le risorse che l'amministrazione comunale e provinciale misero a disposizione, essendo gestite da una realtà di tipo privatistico, furono immediatamente tradotte in concretezza. Queste attività e questi positivi riscontri portarono all'attenzione dell’esperienza di Casa Amica, e Fondazione Cariplo individuò in essa un interlocutore importante per le politiche a sostegno dell’immigrazione. S’innescarono così progetti volti a dare all'associazione gli strumenti indispensabili per svolgere la sua funzione di accoglienza di secondo livello.

In quegli anni cominciò anche la collaborazione con la Regione Lombardia per definire i contenuti di una diversa legge sulla casa che tenesse conto anche di queste esigenze e dell'arrivo di operatori sociali che interloquivano con il settore edile per trovare una risposta al bisogno di case degli immigrati, ai quali si affiancava anche l'attenzione ai carcerati, a persone che venivano da esperienze di tossicodipendenza, a persone che avevano fragilità rilevanti sotto il profilo psicologico o economico.

L'attività divenne sempre più importante in termini di volumi, non solo di persone e famiglie assistite, ma anche di contenuti economici e patrimoniali. L'associazione aveva già avviato alcune iniziative di acquisizione d’immobili che poi ristrutturava per uso abitativo. All'inizio degli anni duemila si pose il tema che forse l'associazione non fosse lo strumento più adeguato per realizzare gli scopi che stava perseguendo sia sotto il profilo giuridico che organizzativo. In quella fase fu fatta una ricognizione di tutto il lavoro svolto che portò alla scelta di trasformare l'associazione Casa Amica in fondazione di partecipazione, quindi in una struttura giuridica con personalità propria. Questo permise di dare un’infrastruttura anche sul piano operativo e del personale, assumendo i primi dipendenti.

In quegli anni, grazie a contributi economici significativi da parte del Ministero degli Esteri e degli Interni, ma anche di Fondazione Cariplo, si realizzarono diversi interventi e ancora oggi la Fondazione ha duecento unità abitative di proprietà.

L'insieme di queste attività pose Fondazione Casa Amica all'attenzione nazionale. Monzani ricorda, ad esempio, di essere andato a parlare agli industriali comaschi, che avevano lavoro ma non chi lo faceva ed era quindi necessario agevolare l’offerta abitativa; e di essere anche stato chiamato dall'allora vescovo di Livorno per spiegare l’esperienza della Fondazione. Sempre in quegli anni Don Gianni fu contattato dal Cnel (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro) per portare la sua esperienza e il suo impegno e renderlo usufruibile da tutto il sistema nazionale.

Con la trasformazione in Fondazione entrarono anche nuove energie, accanto al Comune di Bergamo e alla Provincia, si aggiunsero realtà come la Confindustria e la Diocesi di Bergamo, che divenne uno dei soci fondatori con un apporto patrimoniale di un milione di euro.

La grave crisi economica del 2008 finì con il colpire in modo notevole gli inquilini della Fondazione e determinò un importante squilibrio economico patrimoniale. La Fondazione era abituata ad avere un indice d’insolvenza degli inquilini nell’ordine del 3-5% a seconda dell'anno più o meno sfortunato. Nel 2009 si arrivò ad avere punte d’insolvenza anche del 45-48%. Voleva dire che un inquilino su due non era in grado di pagare il canone di locazione e molto spesso questa difficoltà non era dovuta a una morosità colpevole ma assolutamente incolpevole.

“Fu questa una situazione molto delicata” confida Monzani “perché non potevamo venir meno alla nostra missione che era quella di aiutare le persone fragili nell'accesso alla casa, ma eravamo in difficoltà nel sostenere un sistema che era diventato oggettivamente molto oneroso. In quegli anni inoltre cambiò l'orientamento sia del Comune che della Provincia che finì con il realizzare una posizione di avversione all'attività della Fondazione per ragioni politiche e non legate all’efficienza e alla validità”.

La Fondazione fu prossima al default, dato che il rapporto tra i flussi finanziari in entrata e l'impegno con le banche era pesantemente compromesso. Una situazione drammatica, che si riuscì a contenere soprattutto grazie all'apporto dato dalla Diocesi di Bergamo, che si assunse in prima persona l'attribuzione di risorse alla Fondazione, e anche di Fondazione Cariplo con una propria contribuzione straordinaria di un milione di euro.

Quanto accadde in quegli anni portò a un cambiamento complessivo della strategia di Casa Amica. Decise di non essere più un'entità che operava sul mercato dell'edilizia acquisendo e realizzando immobili per poi locarli, ma un soggetto volto a supportare l'ente pubblico a governare in modo corretto gli strumenti per l'abitazione popolare o sociale. Durante questo cambio di prospettiva e di missione, improvvisamente venne a mancare il Presidente Chiesa a causa di una malattia che si manifestò rapidamente e che nel giro di quindici giorni lo portò via dalla comunità. Una grossa perdita di chi aveva sempre svolto il ruolo di guida in questa esperienza, contingente al sopraggiungere di difficoltà finanziarie non di poco conto.

“Una delle realtà più importanti dal punto di vista patrimoniale è Casa Integra. Questo intervento doveva costare nove milioni di euro supportato da un finanziamento dello Stato di due milioni e sei mila euro. Ma appena cominciarono i lavori, fu trovato un inquinamento e per porre rimedio ci vollero circa settecentomila euro. Inoltre a causa della crisi economica, l'ente comune, che era partner dell’iniziativa, trattenne nelle proprie casse per oltre due anni i fondi che erano stati mandati dallo Stato per sostenere l'intervento perché aveva problemi nel rispetto del patto di stabilità e non poteva dare i contributi destinati senza mettere in difficoltà il rispetto del patto di stabilità del Comune. Sta di fatto che la Fondazione dovette ricorrere al sistema bancario per portare a termine l'operazione con tassi d’interesse che allora veleggiavano attorno al 7,5% all'anno. In più il terreno inquinato determinò una dilazione dei tempi di circa due anni. Insomma anziché costare nove milioni di euro l’operazione costò dodici milioni e mezzo, causando gravissime difficoltà. Tutto il piano finanziario costruito in modo prudente ed equilibrato crollò”.

“Questo fu un altro momento di difficoltà che, devo dire, siamo riusciti a fronteggiare perché al tempo stesso siamo riusciti ad allargare la platea degli enti pubblici che hanno trovato in noi la risposta al proprio bisogno di governare il tema casa per le persone fragili della società. Nel tempo sono cresciute le collaborazioni con gli enti pubblici, ormai copriamo tutto il territorio provinciale in termini quasi esclusivi. Ci proponiamo come il soggetto più affidabile e competente sul mercato in questo segmento d’impegno sociale.”

“Ovviamente non abbiamo risolti tutti i problemi perché Casa Amica non ha potuto contare su nessuna contribuzione esterna. Tutto quello che oggi stiamo realizzando è possibile grazie alla forza delle nostre attività e del lavoro dei nostri funzionari e dei nostri collaboratori. Questo è un elemento da sottolineare perché mi pare la trasposizione nel concreto di un evento naturale. Secondo la scienza il calabrone non potrebbe volare, perché il rapporto peso/ali è contro qualsiasi elemento che dimostri la possibilità per il calabrone di volare, eppure il calabrone vola.”

“Ecco Casa Amica nonostante tutti i parametri economici e patrimoniali non dovrebbe sussistere però continua a sussistere, in qualche modo continua a volare come il calabrone.”

Terminata la storia di Fondazione Casa Amica, proseguo gli incontri ascoltando Luca Rizzi, Direttore Consorzio SBAM! A lui chiedo di spiegare come nasce l’esigenza del Consorzio, in che modo si è strutturato nel tempo, a quali necessità risponde e di illustrare qual è il progetto bandiera che sta realizzando a Bergamo.

“Il Sistema Bergamasco per un Abitare Molteplice prende avvio nel 2018”, racconta Luca Rizzi, Direttore Consorzio SBAM!, “quando cominciarono a trovarsi attorno a un tavolo un gruppo di organizzazioni che, sotto varie forme, si occupavano di sviluppare progetti di housing sociale sul nostro territorio, progetti che andavano dai servizi socio educativo e residenziali, alla gestione dei servizi abitativi sociali in affitto, piuttosto che di supporto nella gestione dei servizi dell'edilizia pubblica.” Questi vari soggetti hanno cominciato a mettersi insieme in seguito all’approvazione della legge regionale 16/2016 di disciplina dei servizi abitativi, per capire come le esperienze individuali potessero trasformarsi in un coordinamento orientato alla promozione di politiche territoriali per l'abitare con finalità di tipo sociale.

“Il tavolo di lavoro fece emergere un primo principale elemento di criticità”, spiega Rizzi “che era di strutturare un percorso di formazione perché la prevalenza di queste organizzazioni erano cooperative sociali con un approccio al tema abitativo eminentemente socio assistenziale. L'altro fattore emerso dopo i primi incontri era la necessità di costruire una grammatica comune. Un tema centrale, valido ancora oggi, in questo settore che ha un livello d’indeterminatezza sotto il profilo giuridico, normativo ma anche nominale di quelli che sono gli strumenti e le politiche”.

Nel 2018 iniziò dunque un percorso di formazione curato da Fondazione Casa Amica, l'ente più accreditato sul territorio bergamasco con missione orientata a costruire politiche abitative e a sviluppare progetti abitativi sociali, con esperienza trentennale. A questo percorso parteciparono sia soggetti provenienti dal mondo della cooperazione che dal mondo delle associazioni, e qualche funzionario pubblico.

Il successo di questo percorso di formazione portò alla decisione di strutturare un coordinamento informale, avviando un nuovo percorso con l’obiettivo di definire alcune linee guida, una struttura di lavoro e un nome: SBAM!, Sistema Bergamasco per un Abitare Molteplice. Un lavoro che nel 2019 prese la forma di un convegno al quale parteciparono come invitati il Sindaco di Bergamo, Confindustria, ANCE, il Segretario generale di Fondazione Cariplo Sergio Urbani, i dirigenti di riferimento della direzione Casa di Regione Lombardia e il sistema degli ambiti e dei territori della Provincia di Bergamo.

“Abbiamo avuto trecento presenti in sala e mille on line. Un successo che non ci aspettavamo, che ci ha dato un’ulteriore spinta a lavorare su un tema evidentemente sensibile” racconta Rizzo. “Abbiamo allora deciso di fare una prima rilevazione di quello che era il sistema di offerta delle organizzazioni partecipanti definita sulla base delle tipologie di domanda e offerta, differenziate sulla base dell'intensità di accompagnamento. Quanto quindi la presenza di operatori dedicati fosse intensa o meno a seconda del servizio erogato e dall'altra invece un'analisi su base territoriale”.

Questa spinta a sviluppare ulteriormente il lavoro fatto si è concretizzata con la partecipazione a un bando di Fon. Coop, un fondo nazionale per la formazione continua delle imprese cooperative, che ha finanziato con circa cento mila euro una serie di attività orientate da una parte alla formazione e dall'altra alla ricerca, attività guidate da due enti: Euricse e Fondazione Housing Sociale.

Euricse ha lavorato alla costruzione di quella che poteva essere l’identità di gruppo e anche all'individuazione del profilo giuridico. Fondazione Housing Sociale ha lavorato invece alla definizione di un modello abitativo specifico e su come questo potesse aderire al territorio bergamasco, mantenendo però quella dimensione di rete alla base della costituzione del gruppo di lavoro. Un percorso che è durato un anno e mezzo, con incontri settimanali e con una serie di workshop formativi specifici, come quelli sullo housing first o sulla tecnologia di tipo assistive per chi ha dei problemi di mobilità, che ha portato alla costituzione di Consorzio SBAM! e allo sviluppo di un modello che è alla base del Progetto bandiera di Colognola.

Perché Colognola

Il complesso di Colognola venne individuato da Fondazione Casa Amica, già partner di Redo Sgr e di Investire Sgr nella gestione di una parte del compendio che in seguito interessò il progetto SBAM!. Infatti, su una cinquantina di alloggi, poco meno della metà dei centoventi complessivi, Casa Amica dal 2016 ha svolto il ruolo di gestore sociale per conto di Investire Sgr.

“Di fatto noi attiviamo una serie di collaborazioni, nel 2018 come Casa Amica abbiamo partecipato assieme ad altri soggetti a un bando di Redo Sgr per la gestione di quasi due mila alloggi sul territorio comunale milanese”.

In quell’occasione Casa Amica promosse la costituzione di quella che poi è diventata una ATI con altri gestori milanesi, in particolare DARCasa, La Cordata, Abitare sociale metropolitano e Kservice. Una compagine ampia di soggetti che per la prima volta si sono occupati insieme della gestione di un compendio immobiliare. Allo stesso tempo Casa Amica promosse una serie di incontri tra Redo Sgr e l’amministrazione del Comune di Bergamo per valutare un possibile coinvolgimento di Redo Sgr nella riqualificazione dello scalo ferroviario dismesso di Porta Sud. Un grande progetto di trasformazione urbana di cui si parla da almeno trent'anni e che oggi sembra concretizzarsi con la firma dell’accordo preliminare tra FS Sistemi Urbani e la società bergamasca Vitali Spa.

“L'abbiamo fatto” spiega Rizzi, “perché in quell’area c'è una parte importante di residenzialità sociale che era prevista già dal precedente PGT di Bergamo, che risale al 2010, il quale aveva introdotto la residenza sociale come elemento connotativo dei progetti di sviluppo urbano”.

Dall'insieme di questi rapporti, dalla definizione di un modello abitativo, da una proposta che ha funzionato e si è consolidata a Milano di gestione integrata e composita, Casa Amica ha proposto a Redo Sgr un progetto che non fosse però predeterminato. “Sapevamo che il resto del compendio immobiliare era in una fase di concordato preventivo della società così abbiamo proposto a Redo Sgr di acquisire il resto del compendio, che aveva acquisito solo in parte alla fine del 2016, e di realizzare un progetto dove sostanzialmente avrebbero dovuto fare gli investitori e noi ci saremmo occupati di sviluppare la proposta abitativa. Era, per loro, qualcosa di inedito, ma siamo riusciti a convincerli proprio perché rappresentava, da quello che ci hanno detto, una terza via rispetto alla loro prassi cioè di realizzare o acquisire l'intervento e in seguito, anche per tramite del loro technical advisor che è Fondazione Housing Sociale, affidare a un soggetto esterno la gestione del compendio, però in forma, diciamo così, di fornitura del servizio su un modello che è predeterminato da loro.”

“Noi in questo caso abbiamo deciso di proporre un rendimento finanziario sull'investimento, garantendo appunto quell'investimento e con un contratto che non è più come solitamente da uno a quattro anni ma decennale. Quindi sostanzialmente per Redo Sgr l'interesse sotto il profilo finanziario era la garanzia per dieci anni del rendimento sul quel compendio. Rendimento che potrebbe essere leggermente più basso perché non ci sono costi di manutenzione, tanto che nella proposta che abbiamo fatto prevediamo la presa in carico da parte nostra anche dei costi di manutenzione straordinaria, ovviamente con un tetto concordato.”

“Noi sappiamo, da parte nostra e da parte loro, grazie alla conoscenza pregressa che abbiamo su uno dei fabbricati che già gestiamo, quali sono gli interventi e i costi della manutenzione e quindi che cosa aspettarci;, loro con un buon margine sanno che salvo imprevisti particolari non dovranno investire da quel punto di vista. I canoni sono stati determinati da noi. Gli incassi saranno ripartiti tra noi e loro in modo tale da garantire loro il rendimento e a noi la copertura dei costi di gestione e l'eventuale, diciamo così, margine che riusciamo ad avere, e che sarà scalare rispetto anche alla nostra capacità di ridurre la vacancy ed eventuali insolvenze”.

Questo modello, diverso da altri, prevede tre sistemi di offerta abitativa: alloggi a canone moderato, alloggi in affitto libero, servizi socio educativi o socio assistenziali di tipo residenziale. Quest’ultima offerta riguarda il grosso delle attività che le cooperative sociali, che fondano e costituiscono il Consorzio, sviluppano e gestiscono da tempo. Si tratta di attività rivolte alle categorie più fragili che hanno bisogno di un’intensità di accompagnamento socio educativo o socio assistenziale, in taluni casi socio sanitario importante: come i minori non accompagnati, persone con disabilità, migranti in prima o seconda accoglienza, persone che stanno sviluppando percorsi di autonomia provenendo da situazioni di dipendenza oppure da situazioni di reclusione, anziani con situazioni di più o meno alta autonomia. A questi servizi ne saranno affiancati altri per le persone che si trovano in condizioni di mobilità particolare come sono ad esempio gli studenti e i lavoratori.

“Noi abbiamo da tempo, come Fondazione, sviluppato un servizio di supporto agli studenti che si chiama home-work. Stiamo inoltre costruendo un accordo con Confindustria Bergamo per offrire un servizio di hospitality ai lavoratori che verranno inseriti in determinate aziende del territorio e servizi di welfare per le famiglie, per dar loro un pacchetto di offerta che per la prima volta cerca di lavorare nel connubio tra casa e lavoro”.

Il modello sviluppato da Consorzio SBAM! ha alcuni tratti in comune con quello di Redo Sgr – Fondazione Housing Sociale, ma si sviluppa con livelli d’intensità un po' diversi. Ci sono spazi comuni a uso degli abitanti, che sono abbastanza tipici nel modello dei fondi, ma ampliati con una serie di servizi e spazi ulteriori, tra i quali la sede del Consorzio, che non sarà solo uno sportello tra gestore e inquilini. “La cosa importante è che noi non avremo più solo il gestore che ogni due, tre settimane va a fare un sopralluogo o riceve gli inquilini, ma ci sarà in loco una presenza quotidiana per almeno mezza giornata tutti i giorni. Si tratta di una presenza composita fatta da almeno quattro figure: il coordinatore generale del progetto, il community manager, il concierge e il referente della comunicazione. Quest'ultimo insieme al concierge lavorerà sulle forme di comunicazione verso l'esterno, quindi la comunicazione social tipica, ma anche altre modalità di comunicazione con gli inquilini. Un lavoro che sarà facilitato da un’app che il Consorzio sta sviluppando con una società di consulenza esterna.”

“Abbiamo voluto usare la parola concierge e non gestore sociale né portiere sociale, né tutte le altre declinazioni che tipicamente si utilizzano, perché l'idea è che questo progetto non sia solo un luogo dove si propone una soluzione abitativa in affitto a costi calmierati, dove non solo si integrano forme di fragilità in un contesto residenziale, non residuale, non segregato quindi fortemente integrato, ma dove si costituisca una proposta abitativa, nelle nostre intenzioni, attrattiva. L’idea è che questo possa essere un luogo dove le famiglie, e le persone in generale abbiano voglia di andare ad abitare non solo perché l’affitto costa meno rispetto al resto del mercato ma perché sono offerti una serie di servizi e un'esperienza abitativa diversa e unica a oggi sul territorio della nostra provincia”.

La figura del concierge sarà declinata come avviene nei servizi di ricettività perciò sarà qualcuno che cerca di rendere più piacevole il soggiorno in quel luogo o comunque il meno complicato possibile. Significa che, anche tramite l’app, lavorerà per cercare di soddisfare le richieste che gli inquilini fanno. Da una parte per ridurre tutti quei livelli di conflittualità che tipicamente si verificano nei condomini e in particolare nei complessi così grandi. Dall'altra per sviluppare quella dimensione di comunità e utilizzare al meglio quegli spazi comuni che sono a disposizione. Ma anche per supportare gli inquilini nel servizio di manutenzione del fabbricato e anche all'interno dei singoli appartamenti dove abiteranno.

In più ci sarà la possibilità per gli inquilini di accedere a tutta una serie di servizi di welfare abitativo che le cooperative sociali che opereranno per il compendio sono oggi in grado di fornire, che vanno dall’assistenza domiciliare ai servizi di baby care, di trasporto e di stireria lavanderia. Tutti quei servizi che favoriscono la conciliazione tra vita e lavoro e che consentono a dei costi contenuti e convenzionati di poter vivere con maggior serenità in un contesto dove c’è una dimensione di comunità e si può fare affidamento non solo sull'incontro casuale o sul rapporto costruito col vicino ma anche su figure professionali che possono supportare in modo importante.

Insieme al concierge, l’altra figura importante è quella del community manager che si occuperà di costruire la comunità in stretto rapporto con il quartiere e la città. Questo significa che a fianco alla costituzione della comunità di condominio, con il Progetto Bandiera si vuole che questa nuova comunità di abitanti, che sarà molto importante per Bergamo perché si tratta di centoventi unità abitative, diventi il più possibile parte attiva del quartiere attraverso una serie di forme di interazione. Ad esempio mettendo a disposizione gli spazi comuni, oppure creando eventi all'interno del comparto e fuori dal comparto o portando alcune esperienze come quella dell'orto sociale e del mercato del biologico.

“È evidente che una compagine societaria di progetto così strutturata consente di portare, non solo il proprio know how ma anche di fare una proposta articolata ed economicamente sostenibile in un contesto dove solitamente questo tipo di iniziative sono difficili da strutturare. Questo perché mettendoci insieme, lavorando su un progetto di queste dimensioni, riusciamo ad avere anche delle economie di scala che ci consentono di operare proponendo questo insieme di servizi a costi contenuti. La cosa interessante è il tentativo di dare casa e di provare a fare una proposta vera e concreta d’integrazione delle fragilità all'interno di un contesto abitativo. Solitamente invece il meccanismo è, come dire, diffuso e residuale cioè si mettono due o tre appartamenti in un contesto di cento o duecento appartamenti, oppure segregativo: contesti dedicati e specifici.”

“La volontà qui è, da un lato, di dare casa a quelle fragilità integrandole con gli abitanti standard o più tipici dei nostri comuni. Dall'altra di offrire un'esperienza abitativa diversa ma a costi contenuti. Il tentativo è di mostrare che si possono costruire modelli abitativi nuovi, diversi, ricchi, senza farlo con cifre molto alte e quindi di fatto dedicandole a dei target che sono orientati a chi ha una capacità di spesa molto alta. Questo è uno dei tentativi che per noi è importante perseguire perché fa parte delle nostre proposte centrali, ovvero provare a costruire una città il più possibile inclusiva e offrire appartamenti innanzitutto in affitto, che sono pochissimi a Bergamo, con una proposta che tende appunto a essere inclusiva perché allarga il più possibile a fasce di popolazioni che tradizionalmente non hanno accesso a questo tipo di servizio”.

Effettuo un sopralluogo nel quartiere di Colognola. Lì visito il complesso in parte disabitato di via Rampinelli, dove incontro Silvia Salvi, Community manager Consorzio SBAM!, e Michael Evans, Presidente Cooperativa Generazioni FA. A Salvi chiedo informazioni sul ruolo di community manager e le attività che svolge. A Evans chiedo invece della Cooperativa e del progetto che avvieranno nel complesso di via Rampinelli.

“Il ruolo di community manager” racconta Silvia Salvi, Community manager Consorzio SBAM!, “vuole essere quello di collegamento tra il compendio di via Rampinelli e il quartiere, e guardando un po' più in là anche la città. In questa fase iniziale il mio compito è di vedere dove è situato il compendio, come ci si arriva e passando di qua dove si va. Ho iniziato anche una mappatura delle realtà del territorio per poi capire come interagire e iniziare una collaborazione con queste e ovviamente gli abitanti, quelli che già vivono all'interno del compendio e quelli che verranno a viverci.”

“Stiamo collaborando con una società che ci aiuterà a definire la brand identity del progetto bandiera di SBAM!” aggiunge Salvi. “Ci aiuterà a trovare il nome, a definire come e cosa comunicare, quali strumenti e modalità utilizzare per entrare in contatto, in interazione e collaborazione con i residenti e le realtà del territorio. Dopo questa fase più interna arriverà la vera e propria collaborazione con le realtà e anche attraverso di loro capiremo come il compendio può essere un valore aggiunto per il quartiere e quindi quali iniziative, servizi, opportunità il compendio può proporre sia per chi abita qui che per il quartiere.”

Come anticipato nelle pagine precedenti da Rizzi, il community manager, il concierge e il direttore del Consorzio formeranno l'equipe operativa e progettuale del compendio di via Rampinelli. Questi avranno uno spazio al piano terra di uno degli edifici del complesso e saranno presenti, il community manager sei ore a settimana, il concierge dodici ore. “Essendo un progetto agli inizi, ci siamo detti di valutare il nostro impegno in base alle necessità, alle proposte e alle opportunità. Costruendo queste relazioni, sia nel compendio che sul territorio capiremo meglio i bisogni e le proposte che poi potremmo sviluppare insieme.”

Chiedo a Salvi di illustrarmi nel dettaglio il lavoro svolto finora

“La mia mappatura è stata camminare per il quartiere” racconta, “ma anche incontrare una persona che abita al di fuori del compendio di via Rampinelli, da prima che questo venisse costruito, che mi ha raccontato la storia e la percezione degli abitanti”. Salvi ha incontrato inoltre l'operatrice di territorio del servizio comunale, che le ha raccontato le realtà presenti nel quartiere; e la presidente del comitato genitori dell'istituto comprensivo, che le ha illustrato l’offerta didattica e parlato delle attività extra scolastiche che vengono svolte durante l’anno.

In questa fase più informale, l’obiettivo di Salvi è stato di raccogliere informazioni sul quartiere e capire quali potrebbero essere gli alleati dai quali partire per poi allargare i contatti e i confronti. “Nel frattempo sto facendo una ricerca sui documenti e anche su alcuni dati. Però gli incontri sono stati utili per capire le dinamiche più qualitative”.

Cos’è emerso dalle testimonianze raccolte?

“Il quartiere di Colognola era un paese” risponde Salvi, “gli abitanti ci tengono al centro storico che è stato recuperato, però, come mi diceva la presidente del comitato genitori, anche con la scuola si è cercato di allargare lo sguardo e proporre opportunità attrattive per i paesi o i quartieri limitrofi. C'è questa parte più identitaria di paese, ma c'è anche questo desiderio di guardare fuori.”

La percezione che Salvi restituisce è di un territorio con tante opportunità, dove ci sono varie realtà attive, tra le quali la più importante è l’oratorio; e diverse persone che si danno da fare, come i negozianti storici che non abitano nel quartiere ma organizzano iniziative con gli altri negozianti e il territorio. “Ho raccolto qualche possibile proposta di cosa potrebbe essere utile fare, anche perché una delle cose che dobbiamo ancora definire è cosa ci sarà allo spazio al piano terra, a fianco ai nostri uffici, dove si vorrebbero portare servizi per gli abitanti ma che potrebbero essere attrattivi anche per il fuori, per il resto del quartiere.”

“Il contesto dove è situato il compendio” conclude Salvi “è un po' defilato rispetto al centro del quartiere sebbene sia stata fatta una pista ciclopedonale che lo collega, per cui adesso è da far vivere. C'è qualcuno che ha un po' di timore rispetto ai futuri abitanti perché ci sono tanti appartamenti, ci si chiede come cambierà la composizione del territorio, mentre altri non lo considerano. Abbiamo queste due posizioni con cui interagire.”

“Generazioni FA è una cooperativa che ha sede a Bergamo e che si occupa di due grandi aree di bisogno sociale: i minori in situazioni di disagio familiare e sociale, e le persone anziane” racconta Michael Evans, Presidente Cooperativa Generazioni FA. “Ci occupiamo di servizi domiciliari, di servizi specialistici legati al tema delle demenze e abbiamo una piccola comunità per le persone anziane.”

Uno dei progetti più significativi di Generazioni FA è Dire, fare, abitare ed è un appartamento per le autonomie dei ragazzi minorenni stranieri. Ragazzi che hanno scelto di radicarsi sul territorio di Bergamo, che stanno completando il proprio percorso formativo e sono alla ricerca di contesti lavorativi.

“Il loro obiettivo, ma anche nostro come educatori” spiega Evans, “è quello di riuscire a renderli il più velocemente autonomi anche dal punto di vista del reddito. Questo non è un passaggio facile sia quando c’è disponibilità di case per accompagnarli in una progettualità finanziata dal pubblico, sia quando invece sono alla ricerca di un contesto nel quale costruire il proprio progetto di vita: è uno degli obiettivi più importanti per la Cooperativa, e al quale abbiamo dedicato anche molte energie.”

Da quando c'è SBAM!, Generazioni FA sta condividendo questo tema con molti altri enti che si trovano come loro, ma con utenze e con tipologie di bisogno diverse, ad affrontare problematiche molto simili.

“In via Rampinelli l'obiettivo che ci siamo dati” continua Evans “è quello di provare a mettere in campo tutte quelle sperimentazioni, quelle innovazioni che riteniamo utili sviluppare a fianco dei servizi abitativi per rendere il compendio immobiliare un posto più accogliente, più capace di inclusione, più capace di garantire quelle forme di prossimità e vicinanza di cui i nostri ragazzi hanno bisogno.”

“Questo significa investire in proposte che possono rendere questa nuova comunità di vita un posto dove le fragilità dei ragazzi stranieri, ma anche delle persone con problematiche di salute mentale, degli ex senza fissa dimora, degli studenti universitari, delle famiglie monoparentali con figli, possano stare assieme ed essere condivise, ma anche un'opportunità per sperimentarsi e costruire competenze sull'abitare che torneranno utili quando non abiteranno più qui. Perché questo, almeno per i nostri ragazzi, sarà un luogo di transito, un luogo protetto e favorevole per rafforzarsi e poi andare a costruire il proprio progetto di vita altrove.”

“Questo progetto bandiera di SBAM! sarà anche un’occasione per dimostrare che una serie di fragilità sommate non fanno ghetto, ma possono rappresentare un'opportunità per i cittadini che queste fragilità più conclamate non le presentano. Questa è l’ambizione più alta. Per noi che ci occupiamo di accompagnamento all'autonomia abitativa poter invece collaborare con enti che sono specializzati nella gestione immobiliare come Fondazione Casa Amica, come Cooperativa Abita, è una grande occasione di apprendimento. Da questo punto di vista le cooperative sociali di tipo A che prendono sede qui, credo come noi, stanno investendo dentro queste relazioni perché sicuramente il tema dell'abitare oggi qui prende una forma assolutamente diversa rispetto a quanto siamo abituati”.

Sempre in via Rampinelli visito l’appartamento abitato da Cinzia, la quale racconta perché ha scelto di trasferirsi a vivere lì, chi vi abita e cosa offre il quartiere.

“Abitavo in via Frizzoni, che è prima della Torre del Galgario di Bergamo, quasi in centro. Ma non mi trovavo più bene in quella palazzina perché non sistemavano più niente. Cioè il figlio della proprietaria pensava solo a riscuotere l'affitto. Aveva anche un impianto elettrico che faceva veramente pena. Dentro questa palazzina, di quattro appartamenti senza ascensore, eravamo rimasti in due: una coppia e io. Questa coppia mi disse: ‘Noi ci trasferiamo perché qua non ne possiamo più’. Ho pensato: ‘Cavolo, come faccio? Se rimango qua da sola poi devo anche gestire in autonomia qualsiasi problema come la caldaia’. Perché faceva tutto il marito di questa signora.”

“Allora, mi ricordai che tre mesi prima avevo letto sul giornale che Fondazione Casa Amica dava ai single, alle coppie giovani o agli anziani, delle case di ultima generazione a canone inferiore al valore di mercato: il canone convenzionato. Ho cercato l’articolo e sono venuta a vedere. Era tutto vuoto. In questa palazzina c'era soltanto un’inquilina. Poi dopo un mese ne è entrata un’altra. Io ho potuto scegliere tra vari appartamenti, li ho girati tutti, alla fine ho preso uno al primo piano perché soffro di fobie, non prendo l’ascensore, ho quindi pensato: gli anni passano e bisogna un attimino tutelarsi.”

“La cosa che mi è piaciuta subito è che ho la cucina a induzione quindi non c'è il gas, non c'è pericolo anche perché da ragazza sono stata ricoverata con tutta la famiglia per una fuga di gas, sono stata in camera iperbarica, l'ho vista un po’ brutta diciamo. Contemporaneamente l'energia è veramente economica perché queste abitazioni sono state costruite per tutelare l'energia nell’ambiente. Anche come riscaldamento spendiamo pochissimo perché abbiamo un impianto geotermico, ma soprattutto la casa rimane sempre calda perché c’è anche il cappotto, sono case fatte bene”.

È stato facile abituarti a questo nuovo contesto?

“All'inizio è stato un po’ difficile, perché vivevo in centro, abitavo su una via centrale, anche se avevo i doppi vetri, sentivo i rumori della strada. Quando invece sono venuta qui è stato un po' angosciante perché c'era silenzio, e non ero abituata al silenzio. Però devo dire che anche durante il periodo della pandemia è stata una grande fortuna avere questo bellissimo terrazzo: mi affacciavo e vedevo il parco”.

Come sono le relazioni con gli altri inquilini?

“In questa palazzina andiamo tutti d'accordo. Addirittura prima della pandemia andavamo alle assemblee condominiali – quei quattro o cinque che partecipano, gli assidui – e poi ci fermavamo a chiacchierare, a ridere, a scherzare. Ci si aiuta. Ci sono state persone che abitano ai piani alti che si sono ammalate di ‘covid’ e sono state aiutate dagli altri inquilini. Veramente, c'è un bel aiutarsi, un grande rispetto. Magari a volte sono entrate persone che creavano un po' di problemi, non avevano rispetto civico ma fortunatamente se ne sono andate.”

“Qui abbiamo anche persone straniere, andiamo d'accordo, ci parliamo, non c'è nessun problema. Ecco, l'unica cosa è far capire a chi entra di rispettare lo smaltimento dei rifiuti ma questo penso sia un problema di tutta l'Italia perché la gente non ha questa concezione, nel senso che io penso che la persona che viene a cogliere i miei rifiuti sia da rispettare, non devo buttare le cose alla cazzo, non sciacquare la plastica, bisogna rispettare anche il lavoro degli altri. Qui c'è gente che butta il vetro nel cassonetto del vetro con la busta di plastica. Allora ogni tanto, d'estate quando sono a casa in ferie, se non vado via, mi piantono davanti ai cassonetti dei rifiuti e faccio un corso di ecologia.”

“L'altra mattina sono andata giù con la saggina a scopare all'entrata perché quelli che escono buttano giù carta, mozziconi. Siccome, secondo me, l'ingresso di un'abitazione rispecchia la persona che sei, mi sono messa a pulire. Qui c'è un bellissimo parco con panchine, la gente si siede ma anche se ha il cestino a due metri la lattina la butta per terra. Allora adesso ho deciso di fare dei fogli che metterò su ogni pianta sui quali scriverò: ‘Buongiorno, sono la pianta, c'è un cestino a due metri, se ti alzi per buttare la lattina eviti di andare in palestra’. Insomma, anche il mozzicone..., io per esempio fumo, ma quando sono in giro ho il porta mozziconi, cioè non lo butto per terra perché è anche bello da vedere un parco pulito.”

“Poi, devo dire che le case sono isolate abbastanza bene perché, tranne il mio vicino quando guarda le partite, non si sente casino, forse qualche volta al sabato se qualcuno ha qualche ospite ma questo è normale, ci sta, nel senso che non è che discutiamo per queste cose. Io addirittura avevo vicino una coppia con una bambina piccola. Poi loro hanno comprato casa e quando sono andati via mi hanno detto: ‘Scusa se la bambina piangeva’. Ho detto: ‘Il compito di una bambina è piangere’, cioè non è che puoi ammazzare una bambina perché piange o suonare il campanello ai vicini ogni due minuti perché piange.”

“Io per esempio, prima del ‘covid’ una volta al mese facevo i meeting buddisti, ovviamente dicevo: ‘Quando uscite non fate casino per le scale’ e nessuno mi ha mai detto nulla. Secondo me il problema della convivenza è sempre pensare che l'altro è te. Ecco, avere sempre questo rispetto, che è la regola della buona convivenza. Poi se qualcuno non lo sa glielo s’insegna, prima con l’educazione e poi un po’ più severi”.

Prima di proseguire con il racconto degli altri interventi di edilizia privata sociale, vado a Roma a incontrare Rossana Zaccaria, Presidente Legacoop abitanti. La tappa romana è obbligatoria perché le cooperative di abitanti stanno cambiando natura e sempre di più sono coinvolte nei progetti di social housing con il ruolo di gestori sociali. Alla Presidente Zaccaria chiedo dunque di raccontare la storia recente e le sfide future che andranno ad affrontare per rispondere appieno alle esigenze ambientali, sociali e culturali.

“Legacoop Abitanti è un’associazione nazionale che rappresenta 624 cooperative su tutto il territorio italiano” racconta Rossana Zaccaria, Presidente Legacoop abitanti. “Sono 260.000 i soci che appartengono a queste cooperative, 624.000 è il prestito sociale e 2,5 miliardi il patrimonio delle cooperative.”

“Per provare a raccontare un po’ la storia della cooperazione di abitanti in tre tappe vorrei dire che la prima cooperativa di abitanti nasce alla fine dell’Ottocento, nel 1896” continua Zaccaria. “Quindi è una storia mutualistica molto longeva. Un secondo passaggio storico importante nell’ambito della storia del nostro settore è il 1990 nel momento in cui le cooperative, definite giuridicamente ‘cooperative edilizie’, decidono di cambiare semanticamente la propria definizione in ‘cooperative di abitanti’ proprio con l’idea di mettere il socio al centro del progetto abitativo e quindi spostando l’attenzione dal manufatto edilizio, dall’hardware – diciamo – al software dell’abitare. Facendo un altro salto storico arriviamo all’aprile di quest’anno, il 2022, un passaggio altrettanto importante perché, da un punto di vista legislativo, viene riconosciuta che la cooperazione di abitanti non ha soltanto come scopo mutualistico quello dell’assegnazione dell’alloggio, ma anche dell’offerta di servizi connessi. Per altro di servizi non solo riferiti ai soci delle cooperative ma anche a soggetti terzi, anche di interesse collettivo”.

Qual è il vostro modello? A quali soci provate a dare una risposta al bisogno abitativo?

“La cooperazione di abitanti risponde a un modello economico che non è quello dell’accumulazione di profitto, ma di una prosperità distribuita, in qualche modo in antitesi a quello che è sempre di più un modello di finanziarizzazione dell’abitare. Il Parlamento europeo in una risoluzione del 21 di gennaio 2021 ha riportato all’attenzione dell’Europa il problema di un accesso dignitoso alla casa, come si dice affordable, e da un punto di vista quantitativo ha detto che il 10% dei cittadini europei spende più del 40% del proprio reddito per l'alloggio, e il 36% delle persone a rischio di povertà ha un problema di affordability. Per altro l’Europa tra qualche giorno dirà, con un’indagine Eurostat che anche in quest’ultimo anno di crisi della pandemia, che i prezzi delle case sono saliti più del 10% quindi superando ancora una volta una soglia che rende questo tema un problema economico e potenzialmente sociale dirompente”.

Le cooperative di abitanti stanno dando una risposta significativa al bisogno di casa che non è più solo riferito a un target di estrema fragilità, ma anche a una fascia media. Queste hanno realizzato più di 330.000 alloggi, hanno un patrimonio di 40.000 alloggi a proprietà indivisa, e nell’ultimo decennio – tra nuova produzione e riassegnazioni – hanno dato risposta con 8.000 nuovi alloggi. Un altro dato importante sono i 3.000 alloggi gestiti per terzi, essenzialmente per il Fondo Investimenti per l’Abitare: lo social housing.

Qual è il percorso che Legacoop abitanti ha intrapreso per accompagnare le cooperative in un processo di crescita necessario per affrontare le nuove sfide legate alla rigenerazione urbana, alla transizione ecologica, alla transizione sociale?

“Sappiamo che l’Europa da questo punto di vista ha definito delle sfide molto alte” precisa Zaccaria. “Esiste come grande contenitore il Green Deal, successivamente l’Europa ha dato uno scenario ancora più ambizioso che è il New European Bauhaus che vuole avvicinare il Green Deal, questa sfida ecologica, ai cittadini e pensarla in termini sempre più interdisciplinari. Legacoop abitanti ha provato a capire come le cooperative di abitanti si stanno ponendo rispetto a queste sfide e anche a questo nuovo pacchetto europeo Fit for Fifty Five che intende, entro il 2030, raddoppiare la percentuale di edifici che dovranno essere riqualificati.”

“Sappiamo bene che gli edifici costituiscono quasi il 40% delle emissioni di CO2 nelle città, per cui è evidente come questo sia uno degli elementi cruciali in termini di superamento dell’impatto ambientale dell’abitare e una possibilità di affrontare la transizione ecologica. Ecco, da questo punto di vista abbiamo osservato che le cooperative di abitanti hanno utilizzato tutti gli strumenti messi a disposizione al momento, tra cui il Superbonus, e hanno in progress dei programmi di riqualificazione di più di 5.000 alloggi. Ma la cosa interessante è che l’efficientamento energetico spesso è affiancato ad attività d’innovazione sociale. Un esempio per tutti, una piccola cooperativa, Cooperativa Mancasale, sta accompagnando questo intervento di efficientamento energetico a un’attività d’indagine sociale svolta da antropologi e storici su come gli abitanti cambieranno i loro comportamenti, e allo stesso tempo stanno affiancando alla trasformazione dell’edificio un intervento artistico.”

“Questo è solo un esempio, ma in una pubblicazione che stiamo realizzando con Fondazione Barberini e che presenteremo a breve, dal titolo Next Green Housing – frutto di un’indagine svolta con Nomisma e Coopfond Next Housing per leggere le caratteristiche della domanda abitativa e la risposta del modello cooperativo –, racconteremo da un lato tutti gli interventi tra transizione ecologica e transizione sociale, e dall'altro quello che potranno fare in futuro le nostre cooperative. Uno dei temi è quello delle comunità energetiche che verranno finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Noi crediamo che la trasformazione del socio da consumer a producer potrà essere un’altra delle attività che le cooperative di abitanti potranno svolgere”.

“In questo quaderno si raccontano le storie di tre cooperative che hanno previsto la realizzazione d’impianti di energia rinnovabile e che hanno già quantificato quali saranno i benefici da un punto di vista del risparmio energetico. Questo non solo per i soci ma anche per la collettività con la possibilità di offrire energia ai comuni attraverso partnership con le amministrazioni locali.”

“Un’altra sfida che stiamo affrontando, e che sarà contenuta in una pubblicazione che restituirà gli esiti di una ricerca-azione che abbiamo svolto per un anno con le nostre cooperative, dal titolo Transizioni urbane cooperative, è riferita alla complessità della domanda abitativa. In Europa, e anche in Italia, più del 10% delle famiglie ha difficoltà di accesso democratico alla casa, ma ci sono altri due dati importanti che ci dicono quanto è complesso intervenire, ovvero il 28% delle famiglie ha una forma di fragilità economica e il 43% ha una fragilità di tipo sociale. Quando si parla di fragilità sociale ci si riferisce al tema della salute o al tema dei rapporti sociali o al tema del lavoro. Quindi più del 55% delle famiglie in Italia ha almeno una di queste tre forme di fragilità”.

“Davanti a una sfida così complessa e ai complessi piani di trasformazione delle città, Legacoop abitanti ha deciso, insieme a Legacoopsociali – che rappresenta tutto il mondo della cooperazione sociale che offre servizi alla persona –, di affrontare i cambiamenti in atto co-progettando non solo metri quadrati ma anche servizi. Da un lato, quindi, offrire una vera e propria infrastruttura sociale complessa e dall’altro attuare modalità di sostenibilità economica perché soltanto una capacità progettuale molto fine renderà questi progetti finanziariamente sostenibili.”

“Un altro obiettivo di questo co-progetto è la realizzazione di due strumenti di assessment, da un lato uno di tipo finanziario relativo ai progetti di rigenerazione urbana e dall’altro uno di valutazione d’impatto sociale. Sappiamo che l’impatto sociale è qualcosa che è sempre più richiesto nei progetti. Lo stesso Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, nella missione che si riferisce allo housing sociale e alla rigenerazione urbana, prevede che oltre a un incremento di offerta di alloggi ci sia un impatto sociale misurabile. Elemento previsto anche nei target della Commissione Europea e nelle milestone da realizzare”.

Quindi da questo punto di vista Legacoop abitanti e Legacoopsociali si sono dotate di uno strumento di assessment di tutto il processo e di valutazione dell’impatto sociale. Strumento che alcune delle cooperative stanno adottando e sperimentando in bandi che prevedono un’innovazione sociale molto spinta. Ad esempio in programmi lanciati e promossi dai comuni che chiedono di riqualificare interi edifici di edilizia residenziale pubblica, destinarli a un mix di abitanti e di produrre beneficio anche rispetto al contesto urbano. Uno strumento di questo genere consente alle cooperative di diventare soggetti promotori e advisor delle pubbliche amministrazioni e di poter gestire tutto il processo sia da un punto di vista finanziario che sociale.

“Infine, rispetto al tema della casa concepito come servizio abitativo e quindi come luogo dove non solo si abita ma viene anche promossa una vita di tipo comunitario, Legacoop abitanti ha fatto un percorso importante definito Cambiare l’abitare cooperando. Questo ha identificato un asset altrettanto fondamentale nella cooperazione tra abitanti ovvero il tema della gestione sociale, con il quale si intende da un lato l’hardware dell’edificio, tecnicamente definito property e facility management, dall’altro la gestione della comunità, il community management.”

“Già alla fine dell’Ottocento le cooperative associavano all’abitare una serie di servizi come il consumo o le attività di natura culturale, quindi questa competenza, questa capacità fa parte della loro storia. Le nostre cooperative, cosiddette a proprietà indivisa, in città come Milano o Bologna, hanno storicamente luoghi come teatri, circoli, centri culturali che offrono una serie di servizi alla persona. Ma con il percorso associativo fatto, abbiamo voluto acquisire nuove competenze rispetto a quelle che appartengono storicamente alla nostra storia di scambio mutualistico, provando a dedicare un’attenzione specifica a quelle che sono le nuove modalità di community management. Questa capacità di gestire la comunità nel tempo costituisce anche un valore aggiunto rispetto alla tenuta del valore degli immobili e quindi ancora una volta alla sostenibilità finanziaria di questi progetti”.

Housing: 69 accomodations

Integrative housing services: 270 mq

Local and urban services:

Business and shops:

End of construction site: November 2021

Inhabitants entry: January 2022

Number of accomodations: 69 flats, of which 69 subsidised and controlled rents to 15 years with future sale agreement.

Accomodations’ dimensions: 60 - 85 - 120 mq

Energy rating: A4

Investors: Investire Sgr, Compagnia di Sanpaolo, Cassa Depositi e Prestiti (CDP)

Fund management and property developement: FASP

Technical and social advisor: Cooperativa Edilizia G. Di Vittorio

Public/private partnership: Comune di Orbassano

Architects: Graziella Mercuri, Walter Fazzalari (Cooperativa Edilizia G. Di Vittorio)

Social Manager: Cooperativa Edilizia G. Di Vittorio

Dopo la tappa di Roma, riprendo il viaggio da Torino dove incontro Massimo Rizzo, Presidente Cooperativa edilizia Di Vittorio. Una cooperativa a proprietà indivisa tra le più importanti d’Italia, che da poco ha festeggiato cinquant’anni di vita. Rizzo racconta la nascita della Cooperativa, i primi interventi edilizi destinati agli operai che dal Sud si sono trasferiti al Nord per lavorare nelle fabbriche torinesi. Parla di come siano cambiati nel tempo i soci e la tipologia d’interventi realizzati. Infine lancia la proposta di un modello di cooperativa diffusa capace di gestire anche singoli appartamenti sparsi nel territorio.

La Cooperativa edilizia a proprietà indivisa Giuseppe Di Vittorio è nata il 12 febbraio 1972 quando una serie di piccole cooperative si trovarono davanti a un notaio per riunirsi e fondarla. Da allora sono passati cinquant'anni e la Di Vittorio ha realizzato più di 5.000 alloggi nell'area metropolitana di Torino.

“La Di Vittorio ha un'origine antecedente al giorno del rogito notarile” racconta Massimo Rizzo, Presidente Cooperativa edilizia Di Vittorio. “Il 3 luglio 1969 a Torino venne indetta dai sindacati la prima grande manifestazione per la casa. All’epoca Torino era stata oggetto di forte immigrazione da parte di persone che dal Sud erano venute a lavorare principalmente alla Fiat, ma mancavano le case e per questo si decise di fare questa grande manifestazione, nota alla storia come i fatti di Corso Traiano.”

“La manifestazione avrebbe dovuto partire dai cancelli di Fiat Mirafiori, ma la polizia attaccò immediatamente i manifestanti prima ancora che iniziasse il corteo. Gli scontri si spostarono nel quartiere di Mirafiori dove continuò una sorta di battaglia. Una battaglia che durò tutto il giorno, con la discesa in piazza non solo di operai e studenti, i veriorganizzatori della manifestazione, ma anche degli abitanti del quartiere di Mirafiori. Finita la manifestazione, gli operai tornarono in fabbrica e decisero di riunirsi in comitati di fabbrica per ottenere il diritto alla casa, che con la manifestazione avevano posto all’attenzione della politica. Quindi costituirono delle cooperative. Tutte queste si riunirono nella Cooperativa Di Vittorio nel 1972”.

L’anno prima della costituzione della Di Vittorio fu emanata una legge fondamentale per lo sviluppo dell'edilizia agevolata e sovvenzionata, la legge n.865 del 1971. Qualche anno dopo la Regione Piemonte emanò la legge regionale n. 28 del 1976. Una legge che concedeva alle cooperative edilizie a proprietà indivisa finanziamenti per abbattere il costo del mutuo necessario per costruire la casa al 3% annuo di rata.

“Allora l'inflazione viaggiava su due cifre” spiega Rizzo. “I mutui erano molto cari e le persone non erano né in grado di comprarsi la casa né di affittarne una, perché gli affitti seguivano l'inflazione e tutti gli anni venivano cambiati i contratti e aumentato il canone. Il fatto che la Regione Piemonte intervenisse con un finanziamento per stabilizzare la rata del mutuo che era servita per costruire l'alloggio e far pagare i canoni solo al 3%, rendeva più facile l'accesso alla casa alle famiglie di operai”.

Nel 1977 iniziarono i lavori per la costruzione del primo complesso di case della Di Vittorio composto da 448 appartamenti, situato nella zona Nord di Torino e chiamato Villaggio Uno. Qualche anno dopo iniziarono i lavori di costruzione di un altro complesso costituito da quattro semi torri e 240 alloggi, situato davanti all'ingresso dell'autostrada Torino-Milano, sempre nella zona Nord di Torino.

Per la realizzazione di questi due complessi era stata utilizzata la tecnica di costruzione chiamata tunnel, importata dalla Francia dove era molto diffusa. Le case erano grandi, composte da tre camere, cucina, doppi servizi e rispondevano al bisogno di famiglie numerose. Queste però non avevano un grosso valore architettonico, perché la necessità in quel momento era dare una casa ai soci, molti dei quali, quando erano arrivati a Torino, vivevano nelle baracche o magari in due o tre famiglie in un alloggio di 60-70 metri quadri.

L'altra caratteristica, più di ordine sociologico, era la forte coesione tra gli abitanti che arrivavano dai comitati di fabbrica, alcuni di essi dalla Fiat, altri dalla Pirelli, altri ancora dalle officine Savigliano. Quindi a grandi gruppi si conoscevano, erano molto coesi tra loro e vigeva uno spirito di comunità.

Nei primi anni ottanta la Di Vittorio costruì altri 700 alloggi dislocati non più nella città di Torino, ma nell'area metropolitana, nei comuni della prima cintura. Circa 100 alloggi per intervento con le stesse caratteristiche di bassa o scarsa qualità architettonica, ma ampi per dare un alloggio a tante persone.

Dopo la metà degli anni ottanta, finita questa fase emergenziale, durante la quale c'era bisogno di quantità, iniziò una fase in cui la Cooperativa, sempre utilizzando finanziamenti pubblici e in particolare modo la legge 28, iniziò a realizzare interventi di dimensioni più piccole, facendo molta più attenzione all'architettura e quindi alla casa. Si passò dalle costruzioni a tunnel alle costruzioni tradizionali, le classiche case in paramano, case di tre-cinque piani, inserite in contesti più urbanizzati.

“Questa fase durò fino a oltre la metà degli anni novanta”, precisa Rizzo. “In questo periodo si realizzarono tanti interventi di dimensioni più piccole per dare risposta ai soci che arrivavano sì dalle fabbriche, ma non più in gruppi coesi come prima dove tutti si conoscevano già prima di abitare. Si trattava di famiglie che avevano bisogno di una casa, e che sapevano che la Di Vittorio poteva rispondere a questa esigenza”.

Negli anni novanta successero due fatti importanti. Nel 1992 venne promulgata una legge nazionale, la cosiddetta Botta-Ferrarini che consentiva alle cooperative a proprietà indivisa di assegnare in proprietà le case che erano in godimento ai soci al valore storico di costruzione, con la restituzione alla Regione Piemonte di una parte dei contributi che avevano usufruito per pagare di meno il canone.

“L'applicazione di questa legge fu approvata da un’assemblea generale delle Cooperative di Vittorio svoltasi nel palazzetto dello sport, per capirne le dimensioni e la partecipazione“ ricorda Rizzo. “La maggioranza era favorevole all'applicazione della legge, mentre un altro gruppo, che era in minoranza, diceva che una cooperativa a proprietà indivisa non doveva mai dividere il proprio patrimonio e assegnare, seppur agli stessi soci che già abitavano dentro, gli alloggi in proprietà individuale.”

Passò dunque a maggioranza l'idea di applicare la legge e s’iniziarono ad assegnare in proprietà gli interventi più vecchi della Cooperativa, consentendo ai soci di realizzare il sogno di una vita cioè di ottenere una casa in proprietà a un prezzo molto basso. La legge prevedeva anche che almeno la metà degli introiti della Cooperativa avuti con la cessione degli alloggi servisse per realizzare nuove abitazioni. “La Di Vittorio vendette circa 1.900 alloggi e da allora ne ha costruiti circa 2.800. Quindi non solo ha reintegrato completamente il patrimonio alienato, ma l’ha incrementato di circa 60-70%”.

Intanto la Di Vittorio intraprese una nuova fase e, dopo aver migliorato la qualità architettonica delle case, iniziò a occuparsi anche della qualità urbanistica dei contesti che ospitavano i propri interventi. Quindi iniziò a rigenerare intere aree – quartieri industriali o pezzi di fabbrica – coinvolgendo altri operatori privati o cooperative a proprietà divisa, riqualificando con criteri che già puntavano alla sostenibilità ambientale: bonificando i suoli, costruendo case che consumavano meno, consegnando tutte le volte che si realizzava un nuovo quartiere del verde alla città.

Nel 2006 a Torino si tennero le Olimpiadi invernali e la Di Vittorio ebbe un ruolo da protagonista costruendo il villaggio olimpico per i media. “C'era bisogno di realizzare delle infrastrutture che sarebbero servite durante il periodo invernale” spiega Rizzo, “ma c'era anche bisogno di avere un'idea per il futuro di queste infrastrutture, perché spesso queste opere costruite per i grandi eventi rimangono poi vuote, abbandonate, e diventano dei rifiuti urbani”.

La Di Vittorio, insieme a due operatori privati, realizzò tre torri, di cui una l'edificio residenziale più alto di Torino superando quella che la Di Vittorio aveva realizzato nel 1980 davanti all’autostrada Torino-Milano. A fianco delle tre torri, realizzò altri sei edifici di sei o sette piani. Tutto in un'area ristretta, per fare tanta cubatura in verticale e consentire lo sviluppo di quello che adesso è il Parco Dora: un nuovo parco per la città di Torino che corre lungo il fiume Dora. “Quella zona si chiamava Spina 3” racconta Rizzo. “Era la zona industriale di Torino dove c'erano le fabbriche pesanti: la Pirelli, le acciaierie della Fiat, il reparto verniciatura; dove c'erano le officine Savigliano che realizzavano le motrici per i treni. Industrie ad alto consumo di acqua e molto inquinanti, che hanno chiuso intorno agli anni ottanta, lasciando questo buco enorme all'interno della città”.

Il villaggio olimpico per i media costruito dalla Di Vittorio nel settembre 2005 fu la prima infrastruttura consegnata al Toroc, il Comitato per l'Organizzazione dei XX Giochi olimpici invernali Torino, e fu la prima infrastruttura ritornata a un uso civile. Infatti, terminate le Olimpiadi, terminati i Giochi paralimpici, gli edifici vennero riconsegnati alla Di Vittorio, che li aveva progettati in modo da poterli trasformare in alloggi modificando solo pochi elementi.

“A luglio 2006 avevamo già dentro le nostre case circa il 40% degli abitanti” afferma con un certo orgoglio Rizzo. “Nel mese di ottobre, successivo a quelle vacanze, tutti gli alloggi erano già pieni. Non per fare paragoni, ma il Villaggio Olimpico degli atleti è stato abbandonato per anni, ed era di proprietà pubblica. Ancora oggi il complesso è famoso perché fu occupato da clandestini che non sapevano dove andare e ci sono voluti anni per lo sgombero e solo oggi si sta ristrutturando”.

Negli stessi anni fu emanata una nuova legge regionale chiamata 10.000 alloggi entro il 2012 che prevedeva un contributo a fondo perduto per la realizzazione d’interventi di edilizia agevolata, All’epoca era ancora attiva la legge 28, ma era inefficace perché nel frattempo i tassi dei mutui erano diventati molto bassi, in un certo periodo storico addirittura negativi.

“In questo modo la Regione, finanziando circa il 40-45% del costo di un alloggio, aveva la possibilità di risolvere il problema a una famiglia a reddito medio basso” afferma Rizzo, “e di avere la certezza che quegli alloggi sarebbero stati gestiti e mantenuti in un certo modo, spendendo meno di quello che avrebbe speso a costruire casse pubbliche, perché in quel caso avrebbe dovuto spendere il 100% del costo dell’alloggio. Solitamente le case di edilizia popolare sono mantenute peggio, molto peggio delle nostre e anche la riscossione dei canoni è più complessa rispetto a quella che facciamo noi”.

Con questo finanziamento la Di Vittorio realizzò circa 800 alloggi. Dopodiché non ci furono più finanziamenti pubblici e ritrovandosi, dopo tanti anni in cui realizzava una media di 150-200 alloggi all'anno, senza finanziamenti ma con una platea di soci che invece aveva bisogno di case e che continuava a iscriversi alla Cooperativa.

Nel 2009 fu istituito il Fondo Investimento per l’Abitare di Cassa Depositi e Prestiti per finanziare progetti di social housing. “Questi finanziamenti però sono un'altra cosa rispetto a quello che noi eravamo abituati” precisa Rizzo. “Per le nostre case lo slogan era ‘una casa per tutta la vita’ perché chi entrava da noi era sicuro che, se pagava il canone e se non creava problemi gravi all'interno della casa, ci stava tutta la vita senza nessun problema, con un canone praticamente identico. Ma non solo, in caso di prematura scomparsa la casa rimaneva ai figli, se abitavano in casa con lui, o alla moglie, al marito o al convivente, perché nel nostro statuto, ben prima che lo prevedesse la legge, era già prevista la convivenza.”

Le case in social housing realizzate dalla Di Vittorio non sono di proprietà della Cooperativa ma rimangono di proprietà dei fondi d’investimento. La Cooperativa si occupa della progettazione, della costruzione e della gestione degli alloggi per quindici o vent'anni, a seconda degli accordi che ha stipulato con le Sgr, cioè le società di gestione del fondo immobiliare. “Gli interventi sono stati realizzati sempre a fatica” spiega Rizzo, “soprattutto dal punto di vista finanziario, perché i fondi e le Sgr hanno sempre cercato, per il mestiere che fanno, di dare il meno possibile per realizzare la casa. La Cooperativa invece ha sempre cercato di ottenere il più possibile perché più soldi si ottenevano migliore poteva essere la casa che si realizzava.”

Alla fine anche se con nessuno di questi interventi si è riusciti a fare utili d’impresa, la Cooperativa è riuscita a dare una risposta a circa 390 famiglie, tante quanti sono gli alloggi realizzati con lo housing sociale. I soci potranno stare in quelle case per quindici o vent’anni. Alla scadenza del contratto di gestione dovranno lasciare libero l'alloggio oppure potranno comprarlo alle condizioni che sono già stabilite nelle convenzioni sottoscritte con i comuni in cui è determinato un prezzo di prima cessione.

Non potranno però più continuare a vivere lì con un canone di locazione, perché il piano finanziario delle Sgr prevede di concludere in quel momento l'investimento e quindi di rientrare di una parte dei soldi. “Bisognerà vedere se fra vent'anni sarà un prezzo di mercato, sarà un prezzo inferiore a quello del mercato, sarà un prezzo addirittura maggiore rispetto a quello del mercato. A seconda di questi scenari i soci avranno convenienza o meno ad acquistare l’alloggio oppure a lasciarlo libero. Questi ultimi anni ci hanno insegnato che il futuro è difficilmente programmabile con certezza”.

Per il futuro Rizzo spera nella riapertura di un dialogo serio e costruttivo con la Regione Piemonte che porti a nuovi finanziamenti pubblici alle cooperative a proprietà indivisa per rispondere ai bisogni delle persone.

Secondo Rizzo bisogna iniziare a pensare anche a una cooperativa a proprietà indivisa diffusa e capace di gestire anche singoli appartamenti. Una cooperativa che non è più costretta a dover fare un intervento edilizio di 20, 50, 100 alloggi, ma che possa agire sul mercato e andare a prendere alloggi sparsi sul territorio da rimettere in ordine dal punto di vista architettonico e anche energetico, e affidarli ai soci in godimento, così come se fossero alloggi di un intero intervento. Questo comporterebbe da un lato la possibilità e l'effettività di non consumare più suolo, e dall’altro di andare a recuperare laddove è già consumato degli alloggi che sono vuoti.

“Torino perde 4.000-5.000 abitanti all’anno” afferma Rizzo. “Sono almeno 2.000-2.500 gli alloggi che si svuotano e che difficilmente si riempiono se non arrivano altre persone. Se da un lato non si riesce più a fare comunità, nel senso che non si riesce più a fare interagire i soci in uno stesso stabile, all’altro si realizza ancora meglio il mix sociale inserendo una famiglia della Cooperativa Di Vittorio ad esempio in uno stabile dove abita un ceto medio borghese.”

“Anche in questo caso c'è bisogno del finanziamento pubblico, l'ho detto forse tra le righe, ma per consentire di far pagare canoni sostenibili alle famiglie c'è l'assoluta necessità che il pubblico metta una parte di finanza. Se non fosse così avremmo gli immobiliaristi privati che farebbero l'affitto. Invece non ci sono perché non c'è la convenienza economica da parte di un operatore privato a farlo. Noi lo possiamo fare perché siamo una cooperativa, perché non abbiamo bisogno del lucro, non è il nostro scopo, seppur dobbiamo tenere i bilanci in attivo, ma c'è bisogno di una parte di finanziamento pubblico. E c'è bisogno di una capacità di gestione degli alloggi che va ben oltre la costruzione.”

“La nostra cooperativa ha introdotto nel 2008 il fondo di solidarietà. Ogni socio assegnatario paga in fattura 2 euro al mese e la cooperativa ne mette altrettanti. Sono 12.000 euro al mese. Questi soldi vanno in un fondo che è gestito da una cooperativa della Caritas, alla quale i soci si possono rivolgere quando entrano in crisi economica se ad esempio fanno cassa integrazione, o perdono il lavoro temporaneamente, o sono piccoli imprenditori e sono stati male quindi non hanno lavorato per un periodo. Vanno lì, dimostrano la loro difficoltà economica e gli viene dato un aiuto sotto forma di pagamento di bollette, luce, gas, libri scolastici, dentista, occhiali per il bambino, necessità primarie. Senza dare soldi in mano ma facendosi consegnare le bollette, l'elenco dei libri, il nome dell'ottico che fa gli occhiali, per saldare le fatture e dare il bene di cui necessitano.”

“Poi c'è un pezzettino dei soci della Di Vittorio che è in difficoltà maggiore perché non ha perso il lavoro in maniera temporanea, non è andato in cassa integrazione, ma ha perso il lavoro definitivamente. Se si perde il lavoro e non se ne trova un altro, non si può neanche più pagare il canone. Se non si paga il canone, noi cerchiamo di salvaguardare e di aspettare il più possibile. Ma dobbiamo anche salvaguardare l'intera cooperativa e non possiamo permetterci di far finta di non vedere che qualcuno non paga il canone perché non sarebbe corretto nei confronti di chi lo paga. E quindi arriviamo a eseguire lo sfratto. Ne eseguiamo pochi fortunatamente, una decina all'anno, dieci, dodici. Ma perché diamo tempo, cerchiamo di aiutare, cerchiamo di indirizzare gli inquilini dove possono trovare un lavoro, dove il Comune può andare incontro alle esigenze e anche quando sono sfrattati attiviamo tutte le procedure che possono consentire una sistemazione diversa da quella pubblica. Noi ci fermiamo alla fascia grigia e non alla fascia più povera. Però cerchiamo di non fare mai arrivare nessuno nella povertà assoluta”.

Da Torino mi sposto a Orbassano dove la Cooperativa sta inaugurando un nuovo complesso. Qui incontro Graziella Mercuri, Progettista Cooperativa Di Vittorio, che illustra il progetto e le finalità dell’intervento.

A Orbassano, nel quartiere Arpini, Cooperativa Di Vittorio ha realizzato due interventi. Il primo è costituito da 96 appartamenti con spazi commerciali ai piani terra e tipologie di alloggi che variano tra bilocali, trilocali, quadrilocali e attici. Il secondo intervento è situato in un’area prospiciente al primo ed è denominato Arpini due.

“In occasione dell'inaugurazione del primo progetto” racconta Graziella Mercuri, Progettista Cooperativa Di Vittorio, “abbiamo avuto l'occasione di conoscere Tiziana Nasi, presidente del Fisip, Laura Capponi Bertinaria, membro del Cidis di Orbassano e Gianluca Pitzianti, un ragazzo che a causa di un incidente stradale è diventato tetraplegico. Insieme a loro abbiamo iniziato un percorso per realizzare il sogno di Pitzianti che, durante la degenza in ospedale, aveva capito l’importanza di progettare delle abitazioni sia per persone para-tetraplegiche che normodotate.”

“Un percorso lungo il quale siamo stati molto attenti a capire quali fossero le esigenze di persone che hanno gravi disabilità motorie proprio al fine di inserirle all'interno di un quadro articolato di famiglie normodotate” spiega Mercuri.

Il risultato finale è un complesso edilizio che si compone di 69 appartamenti, sette dei quali, circa il 10%, progettati per persone che hanno problemi di disabilità importanti. Si tratta di alloggi che possono essere adattati a seconda delle esigenze delle singole persone per permetterle di condurre una vita quanto più autonoma possibile. Alloggi dotati di sistemi domotici molto avanzati, di pompe di calore per il riscaldamento dell'acqua calda sanitaria, e di un dispositivo per l’accumulo di un maggior quantitativo d’acqua, necessario per consentire a queste persone di fare la doccia più a lungo rispetto a una persona normodotata.

Inoltre le porte degli appartamenti sono di dimensioni maggiori rispetto alle normali aperture e sono state tutte create a scomparsa in modo da permettere una maggiore fruibilità degli spazi. Gli alloggi, infine, hanno anche delle camere dedicate al personale di supporto per l'assistenza giornaliera.

“Forse è un progetto unico in Italia” precisa con un certo orgoglio Mercuri, “la cui necessità nasce quando queste persone escono dalle strutture ospedaliere e le abitazioni nelle quali vivevano prima non sono più adeguate alle loro nuove esigenze e quindi si trovano a fronteggiare un reinserimento all'interno della società che non sempre è pronta ad accoglierli e soprattutto è poco sensibile ai problemi della disabilità”.

Il progetto della Cooperativa Di Vittorio non si è limitato solo agli spazi interni, ma ha individuato e definito zone da destinare all’intera comunità. Così un ampio salone al piano terra è pensato come luogo di relazione dove potranno essere inserite ad esempio attività di ascolto, attività di fisioterapia, piattaforme informatiche rivolte sia agli abitanti della casa che aperte a tutto il territorio. Oltre agli spazi al piano terra, in copertura, un’ampia terrazza è stata attrezzata con tavoli, barbecue e orti per la coltivazione di piante aromatiche, in modo tale che questo luogo possa aumentare l’autostima e il sistema relazionale anche con gli altri abitanti.

L’intervento raccontato da Mercuri è stato completato a metà dicembre 2021 e immediatamente dopo sono iniziate le consegne dei primi quindici appartamenti per persone normodotate. Queste assegnazioni sono state completate entro il mese di marzo. Il primo appartamento destinato a soggetti con disabilità importanti è stato consegnato il 3 maggio 2022 in occasione dell’inaugurazione. Altri ancora verranno assegnati nei prossimi mesi attraverso un bando del Comune. Tutti gli appartamenti sono in locazione per 15 anni. Al termine della locazione gli abitanti potranno decidere di acquistarli a un prezzo già convenzionato e stabilito.

Chiedo a Mercuri di descrivere nel dettaglio quali sono le caratteristiche principali dei complessi immobiliari della Di Vittorio

“Dopo parecchi anni di progettazione abbiamo capito quali sono le esigenze delle famiglie” afferma Mercuri. “All'inizio ad esempio Cooperativa Di Vittorio non introduceva mai il secondo bagno. Negli anni invece abbiamo capito che era importante essere attenti alla fruibilità degli spazi, che devono essere tutti sfruttati, e quindi a fare ambienti soggiorno-cucina molto ampi, camere da letto con dimensioni standard e assolutamente il doppio servizio igienico. Negli ultimi anni abbiamo anche valorizzato molto gli spazi esterni quindi gli appartamenti hanno quasi tutti una terrazza dove poter mangiare perché lo spazio esterno è un grande valore aggiunto per la famiglia.”

“La sostenibilità economica dei nostri interventi è proprio l'esito di un corretto equilibrio tra la valorizzazione e la funzionalità degli spazi abitativi e quindi l'efficienza dei costi di costruzione, la sostenibilità dei canoni di locazione e anche dei costi di servizio. Tutte queste peculiarità traggono beneficio anche dai sistemi tecnologici avanzati che noi ultimamente inseriamo all'interno delle nostre costruzioni e soprattutto il valore aggiunto della Cooperativa e quella di avere bassi costi di manutenzione nel tempo”.

A Orbassano torno a parlare con gli abitanti. Come fatto in precedenza, chiedo loro di raccontare cosa li ha spinti a cambiare casa, se è migliorata la qualità della propria vita e se sono aumentate le relazioni di vicinato.

“Ho deciso di cambiare casa per varie problematiche che avevo con il mio padrone di casa. Purtroppo abitavo al piano terreno e vivere in casa era diventato davvero difficile perché non mi sentivo più sicura. Mi suonava il campanello per qualsiasi cosa, nonostante io sia una persona puntualissima nel pagare la mensilità e nel rispetto reciproco. Rispetto che invece lui non ha avuto nei miei riguardi perché era sempre maleducato e mi sono sentita più volte a disagio.”

“Quindi, la classica pubblicità, il passaparola, mi ha portato a indirizzarmi all’ufficio della Cooperativa Di Vittorio. Ho provato a chiedere se c’era la possibilità di partecipare al bando per questo complesso. Mi hanno indicato i vari documenti che servivano. Poi mi hanno detto che mi avrebbero chiamato. Ho pensato: ‘Non mi chiameranno mai’. Invece è andata benissimo perché ci hanno chiamato subito, ci hanno detto che avrebbero accettato le nostre condizioni e ci hanno proposto degli appartamenti. Io cercavo qualcosa di un po’ grande perché, avendo due figli non fratelli, avrei voluto due stanze per dividerli. Mi hanno proposto questo attico al quarto piano con una vista bellissima, il soggiorno, la cucina, tre camere e due bagni.”

“Oggi mi ritrovo qui, felicissima di stare in questa casa perché, al di là di tutti i comfort, è una casa bellissima. Devo dire che mi sento tranquilla e serena perché qualsiasi problema io possa avere basta un messaggio alla Cooperativa che in maniera tempestiva il giorno dopo c’è qualcuno a risolverlo. Sono felice, mi sento serena, la mia famiglia è serena, finalmente. Sicuramente il passaparola servirà ad altre persone che si troveranno nelle mie stesse condizioni”.

Come sono i rapporti con i nuovi vicini?

“Abbiamo già fatto amicizia con diverse persone. Siamo ancora in pochi, devono venire ad abitare altre persone. Abbiamo scelto un capo scala e questo si occuperà di prendere i vari numeri e fare una chat dove, qualora ci fosse un problema – l’ascensore che non funziona, una luce da cambiare – lo si comunica e si risolvere in maniera tempestiva senza andare a citofonare alle porte. Penso che whatsapp sia il modo migliore per comunicare.”

“Qua ci sono tutte brave persone, c’è rispetto reciproco, ci aiutiamo gli uni con gli altri. Io e un’altra signora ci siamo trovate in condizioni di dover pulire dove ci sono i cassonetti perché qualcuno butta il cartone in modo accidentale e poi non vengono raccolti i rifiuti. Ci mettiamo lì, spostiamo i bidoni e puliamo, anche se sono cose che non dovrebbero competere a noi lo facciamo volentieri perché questo è un condominio signorile e vogliamo che il decoro sia all’ordine del giorno.”

“A fianco a me c’è una terrazza molto ampia che sarà adibita solo ed esclusivamente ai disabili. Proprio oggi c’è stata la consegna delle chiavi a Elisa, una ragazza disabile. Io e la mia amica ci siamo subito presentate e le abbiamo detto che qualora avesse bisogno di noi, può suonarci tranquillamente, di non aspettare la mamma che abita a Pinerolo e che ci mette mezz’ora di macchina. Le abbiamo dato i cognomi, abbiamo cercato subito di fare amicizia proprio perché è gente che ha già avuto tante cose brutte nella vita e magari un sorriso regalato fa piacere, così ci siamo rese disponibili.”

“Ci saranno sei appartamenti esclusivamente per i disabili. Questa è una bella cosa, una bellissima iniziativa perché il più delle volte si trovano a uscire dagli ospedali ed entrare in casa propria che però non può più esserlo perché non ci sono tutti i comfort necessari a una persona disabile. E quindi devono cambiare il prima possibile perché non hanno neanche il bagno adeguato alle necessità. Io ho avuto uno zio disabile e so cosa vuol dire la disabilità. Se ti toccano da vicino effettivamente sai la sofferenza delle persone. Non puoi provarla, per carità è una cosa che non puoi provare sulla tua pelle, però ti tocca”.

Avete intenzione di riscattare l’appartamento?

“Noi adesso paghiamo un affitto, tra quindici anni potremmo decidere di riscattare l’appartamento e quindi pagare la somma concordata oppure indirizzarci da un’altra parte. Il nostro più grande desiderio è di riscattarlo. È anche vero che poi i figli non ci saranno più però non importa perché io qua veramente mi sento tranquilla. Io ho trovato una serenità che dall’altra parte non avevo. Mi sentivo in gabbia. Non padrona neppure più di uscire, di fare una cena con gli amici sul balcone perché il giorno dopo il proprietario mi suonava e mi diceva che avevo fatto tardi. Posso capirlo in settimana, ma almeno il sabato”.

“La mia famiglia è composta da me e mio marito. Io ho sessantacinque anni, mio marito settanta. Prima di quest’abitazione, stavamo in un altro appartamento in affitto e l’esigenza di cambiare casa è avvenuta nel momento in cui la mia proprietaria ha deciso di vendere. Noi eravamo da cinque anni soci della Cooperativa Di Vittorio, in quanto mio figlio ha già una casa di questa Cooperativa. La fortuna è stata che c’era questa nuova opportunità, ho partecipato al bando e sono stata fortunata, sono arrivata ottava, non ci avrei mai sperato. Fortunata perché ho potuto scegliere quello che volevo: una casa a pian terreno con il giardino. Per me era importante perché mi piace stare all’aperto. Considerata poi l’età, la mia idea era quella di avere uno sfogo esterno in modo che se con l’età non avrò la forza di uscire potrò stare comunque all’aperto”.

Perché s’iscrisse alla Cooperativa Di Vittorio?

“Quando ho conosciuto la Di Vittorio, più di cinque anni fa, ero proprietaria di un appartamento, per cui mi ci sono iscritta tanto per farne parte. Mio figlio invece si era iscritto perché ambiva ad avere un appartamento. Lo stesso mia figlia. Mio figlio ci abita ancora, mia figlia non più. Poi ho venduto casa perché non mi piaceva la casa dove abitavo, era troppo piccola, e ho continuato a pagare la tessera sperando un domani di entrare nell’assegnazione, e così è stato. Dico la verità, non pensavo di arrivare a questa assegnazione. Sono ben felice di abitare qua, sembra lontano ma non lo è, sono ottocento metri dal centro del paese, allo stesso tempo sono nel verde che era quello che volevo, ma non lontano dal centro, pensando sempre che si va avanti con l’età. M’interessava una casa con il verde ma in paese. Poi sono felicissima perché è una casa costruita con criteri moderni, con il riscaldamento a pavimento, ben coibentata. Secondo me è il massimo che potevo ambire in questo momento”.

Qual è il rapporto con gli altri abitanti?

“Per quanto riguarda gli altri abitanti al momento è ancora un po’ presto per giudicare perché le case stanno piano piano riempiendosi quindi non conosco ancora moltissime persone. Io penso e spero che con il tempo ci sia l’opportunità di relazionarmi con qualcun altro, perché altrimenti non avrebbe lo scopo dello social housing”.

Come valuta il costo dell’affitto?

“L’affitto è calmierato, ma leggermente più alto di quello che avevamo prima. Ci sono però delle migliorie superiori. È un bell’appartamento di 90 mq con una cifra inferiore a quello che varrebbe. Questo è importante”.

“Vivevo in uno stabile molto vecchio, l’affitto era meno caro di qui e non avevo le spese condominiali. Abitavo al secondo piano senza ascensore. Eravamo quattro famiglie. Sono stata lì per sei anni perché conveniva a livello economico. Però era arrivato il momento di cambiare anche perché c’era una situazione di disagio tra le famiglie. Nel senso che non si era creato un bell’ambiente tra gli inquilini. In più c’era tanto casino. La casa era in centro e si sentiva praticamente tutto.”

“Un bel giorno mi sono svegliata e ho sentito la necessità di cambiare. Da una parte il pensiero di fare un altro trasloco, di rimettermi di nuovo in gioco, mi frenava. Quindi ho tirato per un annetto prima di prendere definitivamente questa decisione. Poi mi sono ricordata che mia sorella aveva vissuto per qualche anno in una casa della Cooperativa Di Vittorio e si era trovata molto bene. Così ho deciso di buttarmi. Ho detto: ‘Va bene, provo anch’io’. Sono andata a informarmi, ho chiesto spiegazioni, come funzionava, quindi il fatto di essere associata con una tessera”.

Cos’è successo dopo l’iscrizione alla Cooperativa?

“Prima di questa casa mi avevano proposto altri alloggi, però sapevo che c’era questo complesso in costruzione, anche se non era uscito ancora il bando perché le case dovevano finire di costruirle. Qualcosa mi diceva che dovevo venire ad abitare qua perché comunque il mio desiderio era sempre stato quello di vivere in una casa con il giardino. Alla fine è andata bene. Mi sono iscritta al bando quando è uscito. Non me l’aspettavo, ma ci speravo, di entrare nella graduatoria, mi hanno chiamata.”

“La prima cosa che ho fatto, quando sono arrivata, ho chiesto subito se c’era la casa con il giardino ancora disponibile. Loro mi hanno detto di sì. Ce n’erano ancora tre a disposizione e alla fine ho scelto questa. Si dice sempre che bisogna pensare intensamente a qualcosa affinché questo si avveri e io sapendo che volevo venire a vivere qua perché mi piaceva la zona ci passavo spesso. Mi piace il fatto che sia tranquilla, che c’è una pista ciclabile e a me piace andare a correre a camminare, e mi piacerebbe avere degli animali. Sembra un po’ da matti ma in realtà è così. Guardavo dove sorgeva il sole, dove tramontava, e questo era l’alloggio che ho iniziato a pensare intensamente e a sognare, e così è stato.”

“Il trasloco è stato complicato, come tutti i traslochi, ma dalla mia avevo l’entusiasmo di voler cambiare. Poi vabbè sono stata aiutata dalla mia famiglia, dagli amici, dai traslocatori e nel giro di una settimana sono riuscita a spostare abbastanza in fretta quello che avevo dall’altra parte, perché la maggior parte delle cose le ho tenute tranne la cucina. La cucina mi è arrivata dopo un mese che ero già entrata, però bene o male mi sono riuscita ad adattare. Devo dire che qua sto bene, c’è la quiete che cercavo. La casa ancora non è finita, mancano dei quadri, manca qualcosa che la personalizzi ancora un po’ di più, però piano piano sto trovando la mia dimensione, mi piace potermi occupare del giardino, mi piacerebbe in futuro prendere qualche animale, penso a un cane più che a un gatto, però non lo so, vedremo quello che riserverà il futuro.”

La tua esperienza è positiva?

“Il primo lockdown l’ho vissuto nell’altro appartamento e mi sentivo come un topo in gabbia, ho iniziato proprio a soffrire di stare in casa, non era più il mio ambiente. Qui mi è già capitato di vivere una situazione di smart working o di avere di nuovo il ‘covid’ e dover essere costretta a stare a casa, ma è stato piacevole, in un certo senso perché comunque con il fatto di avere un giardino a disposizione ero all’aria aperta, potevo star fuori anche senza contagiare le altre persone. Sono stata male per altre situazioni, ho dovuto lavorare da casa, come sto lavorando anche in questo periodo, ma qui lo faccio molto volentieri. Uno perché c’è più tranquillità, non c’è casino tutt’intorno, cosa che invece di là c’era. C’era molta confusione. A volte quando stavo al telefono si sentiva tutto ciò che accadeva intorno a me. Quindi vivere qui ha migliorato la qualità della mia vita”.

Sono migliorate anche le relazioni di vicinato?

“Ho iniziato ad avere delle relazioni in questo periodo. La prima riunione, che abbiamo avuto qualche giorno fa, ci ha dato la possibilità di iniziare a capire chi siamo, anche dove abitiamo, in quale scala. Il primissimo approccio l’ho avuto con i vicini dell’altra scala, perché io qui non ho vicinato, almeno al pian terreno, perché a fianco c’è l’ufficio della Cooperativa e dall'altro lato la sala polifunzionale. Quindi ho iniziato ad avere relazioni con il vicinato dell’altra scala. Per dire, l’altro giorno ero fuori che tagliavo l’erba e a un certo punto si è affacciata la mia vicina e abbiamo iniziato a fare due chiacchiere, le ho prestato il tosaerba e lei mi ha prestato un’altra cosa per tagliare i fili dell’erba. Abbiamo iniziato ad avere un rapporto.”

“L’altro giorno, fuori, mentre rinvasavo i fiori ho chiacchierato con i signori che abitano al piano di sopra e la signora che abita a fianco, è stata carinissima perché ha fatto il trasloco qualche settimana fa e le piangeva il cuore perché aveva due vasi con due piante gigantesche, una di vent’anni. Solo che non sapeva più dove metterle in casa. Lei poverina è sulla sedia a rotelle e ha un po’ di difficoltà a muoversi. Alla fine me li ha regalati. Allora l’altro giorno glieli ho messi fuori ed era lì che li guardava. È un buon rapporto, nel senso che cerchiamo di avere un buon rapporto di vicinato. Poi ancora adesso siamo tutti nuovi, non ci conosciamo bene e speriamo nel futuro.”

Hai già pensato se riscatterai l’appartamento?

“Prima di venire qui mi avevano proposto un alloggio in affitto a 99 anni, poi appunto sapevo che sarebbe uscito questo bando e ho deciso di non prendere quella casa lì in affitto, uno perché mi piaceva questa zona tranquilla e due perché spero fra quindici anni di potermela permettere. Poi mi piace il fatto di essere la prima a entrare in quest’alloggio e poter continuare a vivere qui. Non metto mai troppo le mani avanti nel senso che il futuro è giorno per giorno, non è da qua a quindici anni. Tra qua e quindici anni non posso sapere cosa succederà. Però l’idea sì, è quella.

Bari Social Housing

Housing: 226 accomodations

Integrative housing services: 205 mq

Local and urban services:

Business and shops:

End of construction site: December 2018

Inhabitants entry: December 2019

Number of accomodations: 226 flats, of which 136 subsidised and controlled rents, 45 8-year lease with future sale agreement and 45 for direct sale.

Accomodations’ dimensions: 39 – 96 mq

Energy rating: A Cened

Investors: Fondo Esperia

Fund management and property developement: Fabrica Immobiliare Sgr

Technical and social advisor: Fondazione Housing Sociale

Public/private partnership: Comune di Bari, Regione Puglia

Architects: Tecnico Bosco e Associati

Social Manager: Finabita S.p.A., mandataria ATI

Matera Social Housing

Housing: 116 accomodations

Integrative housing services: 200 mq

Local and urban services:

Business and shops:

End of construction site: May 2021

Inhabitants entry: December 221

Number of accomodations: 116 flats

Accomodations’ dimensions: 39 – 120 mq

Energy rating: A Cened

Investors: Fondo Investimenti per l'Abitare - Cdpi Sgr

Fund management and property developement: Fondo Esperia Fabrica Sgr

Technical and social advisor: Fondazione Housing Sociale

Public/private partnership:

Architects: Pro.Ter Studio

Social Manager: Finabita Spa, Abitare Toscana Srl, Dar Casa Società Cooperativa, HOMA

Experience Società Cooperativa, Netural Società Cooperativa A R.L. Impresa Sociale.

Ultima tappa di questo viaggio è il Sud Italia dove gli interventi di housing sociale si contano sulle dita di una mano. Visito prima quello realizzato a Bari e poi quello a Matera. Per entrambi è stata costituita un’associazione temporanea d’impresa che comprende soggetti locali e altri nazionali. Noi mi limito a incontrare chi lavora sul campo. Lo faccio a partire da Andrea Rizzo, Socio Cooperativa HOMA. Rizzo racconta le attività della Cooperativa che è nata per offrire un servizio agli studenti fuori sede in cerca di un’abitazione e che nel tempo ha diversificato l’offerta di servizi fino a occuparsi di community e property management.

“Cooperativa HOMA nasce come Apulia Student Service nel 2013” racconta Andrea Rizzo, Socio Cooperativa HOMA, “grazie a un finanziamento ottenuto con il programma della Regione Puglia per le Politiche Giovanili Bollenti Spiriti”.

Un gruppo di studenti universitari decise di mettere la propria esperienza di studenti fuorisede a servizio del mercato creando una bacheca di affitti virtuale per far incontrare domanda e offerta di alloggi universitari. Questi andavano negli appartamenti che i proprietari volevano mettere a disposizione per la locazione universitaria, facevano delle verifiche sulle qualità e caratteristiche dell’immobile e si proponevano come consulenti per i contratti per cercare di limitare il fenomeno degli affitti in nero.

“Dopo il primo anno di sperimentazione a Lecce” prosegue Rizzo, “abbiamo introdotto il virtual tour a 360 gradi all'interno degli immobili che ha rappresentato il marchio di fabbrica della Cooperativa perché dava la possibilità di visionare l'appartamento ancor prima di entrarci”. Lo stesso anno iniziò anche una collaborazione con ADISU Puglia, l'ente regionale per il diritto allo studio, ampliando il servizio offerto da Apulia alle città di Bari e Foggia. Successivamente, dal 2015 in poi, lo stesso servizio fu proposto a Torino, Milano, Brescia, Bergamo, Firenze, Pisa e Siena.

Nel 2021 la Cooperativa cambiò nome – da Apulia Student Service a HOMA – e forma giuridica – da società cooperativa a responsabilità limitata a società per azioni –, per favorire gli investimenti di fondi o istituti di credito. Con il cambio di nome e forma giuridica, la nuova società si strutturò attorno a tre attività principali: la vendita di servizi abitativi alle pubbliche amministrazioni, l’affitto di appartamenti da sublocare a studenti o giovani lavoratori, e lo social housing.

Quest’ultima attività riguarda in particolare il complesso di Bari social housing dove HOMA collabora con FinAbita, Dar Casa, Abitare Toscana, e Experience. “Le nostre attività sono state precedute da un percorso di formazione e di studio del software gestionale che utilizziamo per monitorare tutto il processo di property management, quindi l'emissione delle fatture o i pagamenti da parte degli inquilini, i conguagli e tutta la parte relativa all'amministrazione più fiscale ed economica.”

Nella prima fase del progetto Bari social housing, HOMA si è occupata della creazione del sito web, del virtual tour, e dell'attività di sportello pre insediamento. Poi, dopo il primo bando dell’estate 2019, ha organizzato eventi di open house durante i quali si è data la possibilità di visionare gli immobili a chi aveva fatto domanda, ma anche a chi non l'aveva fatta. Le prime assegnazioni sono arrivate a gennaio 2020 con l’ingresso di 60-70 famiglie.

Con il lockdown HOMA ha dovuto reinventare il rapporto con gli inquilini e con chi voleva presentare la domanda. È stato necessario avviare un processo di digitalizzazione, sia della fase di selezione quanto in quella di supporto tecnico agli inquilini. Un processo che ha portato anche all’apertura di un gruppo Facebook degli inquilini dove, attraverso dei sondaggi, sono state prese alcune scelte importanti per la comunità.

Oggi, due anni dopo l'inizio del progetto, sono state assegnate in locazione il 95% circa delle unità abitative presenti nel complesso Bari social housing. “All'interno dello stesso ci sono altre due modalità in cui gli appartamenti possono essere ceduti. La prima è la vendita classica, l'altra è quella dell'affitto con riscatto, il cosiddetto rent to buy, cioè gli inquilini corrispondono in anticipo sull'acquisto e per i successivi otto anni un affitto che poi parzialmente viene conservato in quota capitale al momento del riscatto.”

Chiedo a Rizzo di spiegare nel dettaglio l’attività di sportello svolta prima dell’assegnazione degli appartamenti agli inquilini.

“Nella fase di sportello, il compito di HOMA era di spiegare, a chi era interessato a partecipare al bando di assegnazione degli alloggi, i requisiti necessari per fare la domanda. Era necessario, per esempio, che chi facesse la domanda avesse o la residenza o l'attività lavorativa principale nel Comune di Bari. Non si poteva, inoltre, al momento della sottoscrizione della domanda, avere un reddito superiore ai 45.000 euro lordi come nucleo familiare.

L’impegno di HOMA non si limitava solo a dare informazioni sul bando, ma era anche quello di valutare il profilo delle famiglie interessate a presentare domanda. A queste HOMA chiedeva se sapessero cosa fosse lo housing sociale e cosa fossero disposti a fare per mettersi in rete con gli altri.

“Devo dire che la maggior parte delle persone che ha fatto la domanda non era a conoscenza di quello che fosse lo housing sociale” confida Rizzo, soprattutto perché questo intervento di Bari è stato il primo del Sud Italia. Le persone erano interessate al fatto che gli immobili fossero nuovi, fossero di qualità e fossero a disposizione con un canone di affitto più basso rispetto alla media di mercato.

Qual è l'attività che svolgete oggi?

“Io gestisco il primo contatto” racconta Rizzo, “sia con chi vive, sia con chi vorrebbe vivere all'interno del complesso immobiliare. Lo faccio rispondendo al numero di telefono aziendale che è attivo dal lunedì al venerdì nella fascia oraria della mattina.

Quando riceve una telefonata da una persona nuova, la prima cosa che Rizzo illustra è la tipologia di offerta, cioè la presenza di appartamenti in affitto, in affitto con riscatto o in vendita. Se la persona ha i requisiti viene indirizzata a presentare la domanda, che si può fare sia on line che fisicamente allo sportello. Ricevuta la domanda, si valuta se questa è stata effettuata correttamente, se ci sono i requisiti soggettivi e quelli di reddito. Infine la stessa viene girata alla proprietà per la validazione finale.

L'altro aspetto del quale HOME si occupa insieme ad Experience è la gestione delle morosità. La proprietà comunica chi non ha pagato gli affitti e loro fanno da tramite tra la proprietà e l'inquilino per cercare di trovare una soluzione. “Molto spesso” precisa Rizzo “è stato necessario ricorrere a dei piani di rientro che sono una modalità che la proprietà concede agli inquilini che hanno avuto difficoltà a rientrare del proprio debito, contribuendo con una quota mensile che non sia troppo onerosa rispetto a quelle che sono le sue possibilità. Il piano di rientro è una forma di rateizzazione del debito che precede quelle che sono le misure più drastiche per un moroso all'interno di un complesso immobiliare che comunque resta privato”.

Chiedo a Rizzo di parlarmi della proprietà e di come collaborano con gli altri soggetti presenti nell’ATI.

“Esperia è un fondo immobiliare specifico per lo social housing nel mezzogiorno. Il fondo è gestito da Fabrica Sgr una società di gestione del risparmio. All’ATI partecipano FinAbita, che è la società capofila, Abitare Toscana e Dar Casa”.

“Solitamente facciamo una riunione mensile con il fondo all'interno della quale si valutano le situazioni in cui è necessario intervenire. Il primo intervento è un sollecito che viene mandato da noi tramite la casella di posta elettronica del gestore sociale in cui si allega l'estratto conto dell'inquilino, gli si chiede eventualmente, se ha già effettuato il pagamento, di allegare le ricevute di pagamento, oppure di saldare l’importo che deve entro sette-dieci giorni. Nel caso in cui il sollecito scritto non vada a buon fine o nel caso in cui l'inquilino si voglia mettere in contatto telefonico con noi, c'è un colloquio telefonico o un colloquio fisico in cui ci viene spiegata la problematica che noi riportiamo a Fabrica Sgr che poi prende la decisione finale”.

“Con gli altri soggetti che formano l’ATI ci sentiamo telefonicamente quasi tutte le settimane. Con FinAbita, che è il coordinatore del progetto, ci sentiamo ogni qualvolta si verifica una problematica con la quale non abbiamo ancora dimestichezza. Con Abitare Toscana, che cura tutta la parte di property, quindi l'emissione delle fatture, c'è uno scambio di mail settimanale. Con Dar casa, che ha fatto la parte di advisor del progetto di comunità, c'è un rapporto molto più saltuario, perché una volta avviato il progetto va da se che gli inquilini diventano i protagonisti”.

Quali criticità avete riscontrato?

“La maggiore criticità è data dal fatto che per noi questa è la prima esperienza quindi stiamo imparato sul campo. Il rapporto con le persone è molto bello ma anche molto spesso delicato. Noi siamo l'unico tramite che hanno per esporre le proprie problematiche o criticità. Molto spesso non siamo noi i responsabili di quello che succede però ci dobbiamo occupare di tanti aspetti che comprendono anche i rapporti con tante altre persone come per esempio imprenditori, maestranze o tecnici. Se c'è un ritardo da parte di ogni singolo anello di questa catena chi subisce la problematica maggiore è l’inquilino che, avendo noi come unico tramite, si sfoga con noi. La parte più critica del nostro lavoro è quella del dover sempre mantenere la calma, la professionalità, spiegare nei minimi dettagli che il problema dipende da questa piuttosto che da un’altra causa e quindi essere molto pazienti.

Dopo Andrea Rizzo, raccolgo la testimonianza di Danilo Francesco Colosimo, Socio Cooperativa Experience. Colosimo parla degli appartamenti presi in gestione a Bari per destinarli alla locazione di breve periodo e dei laboratori artistici realizzati all’interno degli spazi gestiti. Poi si sofferma sul progetto di comunità avviato per Bari social housing, descrive i primi incontri con gli inquilini e la definizione delle attività per gli spazi comuni.

“Cooperativa Experience Scarl nasce nel 2016 a Bari con l'idea di creare soluzioni innovative per l’abitare” racconta Danilo Francesco Colosimo, Socio Cooperativa Experience.

Experience prende in affitto, per lunghi periodi, appartamenti di grandi dimensioni, li arreda attraverso workshop di autocostruzione o con il coinvolgimento di artigiani locali e crea spazi di condivisione dove ospita turisti e artisti. Le case di Experience sono composte da camere da letto, bagno e cucina in condivisione, e da una zona living dove si può fare smart working e vengono organizzati diversi eventi.

L’appartamento più rappresentativo di Experience si trova a Bari Vecchia, a Palazzo Verrone, dove sono stati ospitati diversi artisti che in cambio hanno donato le proprie opere o un piccolo bozzetto. In questo palazzo d'epoca del 1600 è stato per esempio realizzato un workshop di serigrafia sui tessuti di arredo durante il quale sono stati creati tendaggi per l’appartamento. Sempre a Palazzo Verrone sono stati organizzati diversi eventi di teatro, cinema e musica. In alcuni casi utilizzando anche il terrazzo per ospitare serate con artisti locali.

Dal 2019 Experince si occupa anche della gestione sociale e immobiliare del complesso di Bari social housing insieme ad altre cinque realtà del mondo cooperativo con cui ha costituito un’associazione temporanea d’impresa. Da allora Experience, da un lato continua a rivolgersi al mercato degli affitti brevi per turisti e a ospitare artisti, dall'altro lato si occupa di social housing.

“Il progetto di comunità di Bari social housing” racconta Colosimo, “è stato avviato agli inizi del 2020 con l'ingresso dei primi inquilini, a marzo 2020 c'è stato il lockdown e abbiamo dovuto interrompere le attività, ma già a luglio 2020 abbiamo iniziato a convocare gli inquilini per una serie d’incontri di comunità in maniera tale da poter creare la governance degli spazi in comune: un locale al piano terra e un’area esterna”.

In quegli incontri gli operatori di Experience hanno avuto il ruolo di facilitatori dando la possibilità agli inquilini di esprimere quale progetto di comunità volevano realizzare e aiutandoli a organizzare il lavoro di co-progettazione degli spazi comuni. “Abbiamo ritenuto opportuno dividerci in due gruppi a seconda degli interessi” ricorda Colosimo. “Così un gruppo si è occupato degli spazi interni e un altro gruppo delle aree verdi. Dopo una serie d’incontri sono state definite quali attività fare in entrambi gli spazi.”

Per gli spazi verdi è stato costituito un comitato composto da una quindicina di inquilini che ha deciso di fare un orto sociale, questo ha visto la sua nascita a luglio 2020 e il suo primo raccolto già a settembre-ottobre 2020. Con il raccolto è stato poi organizzato un mercatino di comunità in cui sono stati venduti i prodotti raccolti e, siccome si trattava di un orto non di grandi dimensioni, il mercatino veniva anche implementato da altri prodotti che gli abitanti riuscivano a reperire attraverso aziende o fornitori locali.

Anche per gli spazi interni, un locale al piano terra, è stato costituito un comitato. I primi incontri hanno riguardato più la governance, cioè come poteva essere organizzato uno spazio comune fruibile da tutti gli abitanti indistintamente. Da queste discussioni è nato un regolamento, che è stato negli anni modificato, e la decisione che inizialmente questo spazio dovesse essere a uso esclusivo della comunità di abitanti di Bari social housing.

Durante gli incontri è nata inoltre l'idea di creare un forum on line in cui ogni abitante può proporre attività al comitato. Idee che vengono poi valutate e validate con il gestore sociale. Le prime attività che sono state fatte all'interno dello spazio comune sono state di tipo laboratoriale, tra le quali un laboratorio di riciclo di tessuti e un laboratorio di teatro per bambini. In entrambi i casi l’inquilino che ha organizzato il laboratorio ha messo in campo anche le proprie competenze. Tuttavia a oggi lo spazio è utilizzato soprattutto per le feste di compleanno dei bambini.

“Ovviamente questo percorso non è stato tutto rose e fiori, ha incontrato le sue difficoltà” precisa Colosimo. “Difficoltà dettate un po’ dall'ambiente esterno perché dal 2020 ci sono stati periodi di lockdown a intermittenza e quindi non si è riuscitisi ad avere un percorso così fluido, sebbene gli inquilini si siano impegnati tantissimo. Dall'altro lato, avendo una comunità molto folta ed eterogenea, sono nate diverse controversie sulle feste che si sono regolamentate anche con orari perché non tutti gli inquilini sono disposti ad accettare fino a tardi la musica.”

Il percorso di comunità descritto da Colosimo, viene ripreso da Caterina che racconta in prima persona l’esperienza vissuta come abitante del complesso di Bari social housing, insieme alle riflessioni personali che ne sono seguite.

“Ero in cerca di casa perché quella dove abitavo era molto grande” racconta Caterina. “Cercavo una soluzione che fosse in città ma non troppo, in periferia ma non troppo. Poi mi hanno accompagnato qui, ho visto la struttura e mi sono innamorata degli spazi aperti, mi sono innamorata del respiro che c’è tra una palazzina e l'altra. In più c'è stata una sorta di alchimia perché alcuni amici hanno avuto la stessa idea, e sapere che sarei andata a vivere in un posto dove mi portavo dietro anche delle amicizie, mi ha fatto decidere. Poi vabbè, ho visto la casetta e mi è piaciuta, anche se da 150 mq andavo in 50 mq, però diventava tutto a misura del tempo e dell'età che erano passati. Non avevo neanche più voglia di gestire spazi troppo grandi. Ora è tutto più facile”.

Torniamo indietro. Può raccontarmi il percorso per ottenere l’alloggio?

“Io e mio marito abbiamo partecipato a una selezione presentando vari documenti” spiega Caterina. “Dopodiché è uscita la graduatoria in cui c’era scritto che la nostra domanda era stata accolta e potevamo venire a decidere quale appartamento andasse bene per noi. Ci sono state fatte vedere alcune soluzioni e noi abbiamo fatto la nostra scelta. Subito dopo abbiamo stipulato il pre-contratto. Poi, assolti tutti i compiti dal punto di vista amministrativo e anche economico, abbiamo preso possesso della casa in piena pandemia. Ed è stato anche un po’ complesso spostarsi sapendo che i corrieri facevano fatica ad arrivare, però dopo tutto è stato superato”.

Per gestire gli spazi comuni avete istituito un comitato. Com’è nata questa necessità?

“C'era la necessità di gestire gli spazi comuni, tutti quelli non di competenza comunale ma di competenza dei condomini, e il comitato è stata la formula più semplice che ci è venuta in mente, anche se poi non abbiamo avuto il tempo di costituirlo in forma ufficiale” risponde Caterina. “A quel punto, grazie al gestore sociale, abbiamo iniziato gli incontri ai quali sono stati invitati tutti quanti i condomini. Le prime riunioni sono state molto frequentate poi c'è stata l'auto selezione perché c'è l'impegno di presentare le chiavi, tenere d'occhio la pulizia, controllare che durante gli eventi non ci siano disordini, che i bambini non facciano troppe macerie. Dunque, siamo rimasti in pochi, come sempre avviene in queste situazioni, e il comitato ci è sembrata la forma più agevole, più semplice. In futuro probabilmente ci sarà la necessità di costituirsi sotto un’altra forma perché si pensava di partecipare anche a dei bandi”.

All’inizio ha raccontato che uno dei motivi che l’hanno spinta a venire qui era la presenza di amici che avevano fatto la stessa scelta prima di lei. Nel tempo, con gli altri abitanti, che tipo di relazione ha costruito?

“Sì. Alcune relazioni le avevo già, perché dopo i primi amici che hanno preso casa qui, sono arrivata io e poi sono cominciati ad arrivarne tanti altri. Con quelli c'era già una relazione precedente. Con gli altri è avvenuto in maniera spontanea, nel senso che ci si è incontrati e conosciuti. Ti racconto un particolare: avevo bisogno di qualcuno che stirasse le camicie e mi hanno presentato una signora che abita nel blocco di fronte al mio. Le ho portato le prime camicie, da lì è nato un rapporto di amicizia per cui adesso fa le pulizie a casa di mio figlio, che ha preso casa anche lui. Il rapporto è andato anche oltre perché lei frequenta delle campagne, qui nella zona, dove ci sono degli allevatori di galline e mi porta le uova. Io ho portato le uova alla mia vicina. La mia vicina ha scoperto che le uova le porta questa mia dirimpettaia e quindi ha cominciato a ordinarle anche lei. E c'è stato questo passaparola perché cui girano uova per tutto il complesso, una cosa simpatica.”

“Ma anche altri tipi di cose. Per esempio, che ti devo dire, alcune mamme che hanno i bimbi molto piccoli e che festeggiano il compleanno o l'onomastico oppure il compleanno della nonna, oppure i 40 anni di matrimonio, mi chiedono di non incontrarci negli spazi comuni, ma sotto casa loro perché scendono con il bimbo in braccio, magari mentre lo allattano. Questo perché si è creato un rapporto di fiducia, di tranquillità, di serenità. Non è con tutti così, come accade in tutte le comunità, ovviamente, però siamo sulla strada buona perché succeda. Poi alcuni condomini si sono uniti in corso al comitato, si sono resi disponibili a controllare, che ne so, se le porte sono tutte chiuse o se sono state fatte bene le pulizie dopo gli eventi, oppure mi chiedono le chiavi per venire a portare i libri”.

Come valuta il processo di costruzione della comunità di abitanti?

“Questo intervento di social housing è nato poco tempo prima dei lockdown. Questo ha impedito gli incontri, le cene, le riunioni; ha tolto due anni di vita che potevano aiutare a far crescere lo spirito di comunità. Però ora stiamo recuperando un po' il tempo perso. Poi, ci sono, come in tutte le comunità, quelle persone che probabilmente non arriveranno mai ad avere uno spirito di comunità perché proprio nascono con l'idea dell'abitazione come la loro proprietà privata, il resto non gli importa. Con quelli c’è poco da fare. La maggioranza della comunità, invece, è ben disposta a fare comunità e a far sì che lo spirito dello social housing possa prendere piede completamente. La via secondo me è segnata, il terreno è stato tracciato. Ora bisogna lavorare”.

Secondo lei perché le persone decidono di vivere in un progetto di social housing?

“Questo è un parere assolutamente soggettivo. Io penso che le persone siano state attirate a venire qua sia per il fattore economico perché a Bari gli affitti di strutture simili sono veramente molto, molto alti; sia per gli aspetti energetici che sono allettanti. La possibilità di non avere sprechi, di poter utilizzare il solare o altri tipi di energia per l’illuminazione ha contato molto; ma anche lo social housing ha attirato molto la curiosità. Che tipo di vita si fa nello social housing? Poi viverla veramente, comprenderla e partecipare è un altro passo. Quello ha bisogno di tanto tempo. Ripeto, a mio modo di vedere, personalissimo parere, ha attirato il discorso economico e poi questa nuova visione dello social housing che poteva sembrare facile ma che invece non lo è, perché invece è molto impegnativa”.

L’ultima testimonianza raccolta è quella di Andrea Paoletti, Presidente Società Cooperativa Netural. Sono a Matera, Paoletti racconta dei progetti partecipativi avviati nel quartiere San Pardo e poi del ruolo di gestore sociale di Matera social housing. Qui la Netural ha collaborato alla selezione degli inquilini, a seguito la fase d’ingresso negli appartamenti e facilitato il processo di costruzione della comunità di abitanti.

“Netural è nata nel 2018 e si occupa prevalentemente di progetti di valorizzazione territoriale e di accompagnamento nella costruzione di comunità” racconta Andrea Paoletti, Presidente Società Cooperativa Netural. “Il nostro progetto più importante è lo spazio aggregativo Casa Netural. Uno spazio di co-working e di co-living, ma soprattutto un progetto grazie al quale abbiamo rigenerato una parte della città di Matera coinvolgendo la cittadinanza in maniera pro-attiva e sviluppando servizi per il quartiere San Pardo, come la portineria di quartiere e la scuola dei saperi di comunità dove i cittadini trasmettono competenze o saperi ad altri cittadini”.

Un altro progetto importante di Netural ha riguardato due spazi verdi comunali che Netural ha adottato e rigenerato trasformandoli in luoghi ludici, ricreativi e di socialità per i cittadini. Uno più specifico per i bambini, chiamato Il Quartiere Ri-Luce; e un altro Agoragri più a dimensione di famiglia ma anche intergenerazionale perché ha l’obiettivo di mettere insieme bambini, e quindi attività all'aria aperta di outdoor education, con altre attività per i genitori ma anche per le persone più anziane.

“Nel 2021 l'ATI che ha sviluppato il progetto Matera Social Housing ci ha invitato a diventare il loro braccio operativo in città e mettere così a terra tutto quello che era la nostra conoscenza e la nostra expertise sullo sviluppo di comunità” continua Paoletti. “Abbracciare quest’idea è stato per noi naturale perché tutte le tematiche presenti all'interno del progetto di social housing le avevamo già sviluppate a Matera.”

Dall'aprile del 2021 Netural ha dunque partecipato al processo di selezionare dei 113 nuclei familiari che sarebbero entrati all'interno degli appartamenti di Matera Social Housing: bilocali, trilocali, trilocali con cucina e quadrilocali. In una prima fase Netural ha lavorato alla scrittura del bando definendo con la proprietà quali dovessero essere i requisiti affinché le persone potessero partecipare ed essere assegnatarie degli appartamenti. Uno dei più importanti era il reddito ma un secondo requisito estremamente importante era la propensione dei nuclei familiari a voler partecipare a un'attività di socializzazione tra le persone.

Successivamente Netural ha lavorato alla selezione degli inquilini, analizzando prima le domande che sono arrivate, oltre cinquecento, e poi individuando quei nuclei familiari con le caratteristiche giuste e che rispondessero ai criteri di selezione. Ancor prima di decidere chi fossero i selezionati Netural ha organizzato un incontro di comunità per mostrare tutti gli immobili e per spiegare alle persone interessate quale fosse il significato profondo dello social housing cioè quello di sviluppare dei processi che fossero condivisi e trasparenti, che fossero partecipati e anche estremamente equilibrati e orizzontali.

“Il riscontro è stato positivo perché le persone erano molto sorprese della bellezza dell'immobile e dalla qualità degli spazi all’aperto, spazi di una certa dimensione che per la città di Matera sono straordinari” spiega Paoletti.

Dopo l’incontro è stata fatta la selezione e con la selezione è iniziato un nuovo percorso in cui Netural ha dovuto, sulla base delle richieste degli inquilini, fare un macth tra quelle che erano le richieste e gli appartamenti disponibili. Inseguito gli operatori di Netural hanno incontrato tutti i nuclei familiari mostrando loro gli appartamenti e cercando di capire se l'appartamento scelto potesse soddisfare i loro desideri. Alcuni nuclei hanno accettato, altri invece non hanno accettato ed è stato necessario chiamare quei nuclei che erano nella lista di attesa.

Dopo la fase dell'assegnazione c'è stata la fase della contrattualizzazione con la sottoscrizione del contratto d’affitto e l’attivazione delle utenze. Insieme all'appartamento, tutti hanno avuto anche un posto auto esterno o interno. “Questo è un processo che è andato da metà dicembre ed è ancora in corso perché i nuclei familiari sono entrati in maniera scaglionata da dicembre 2021 a luglio 2022” precisa Paoletti. “In questo momento rimangono ancora sei appartamenti da affidare, ma stiamo capendo come farlo perché c'è l'interesse da parte dell'amministrazione comunale di destinarne alcuni a un uso più sociale”.

Con l’ingresso dei nuclei familiari negli appartamenti è entrato nel vivo anche il progetto di comunità che coinvolge tutti gli abitanti. “Il primo incontro è stato utile per mostrare loro quali fossero gli spazi destinati alle attività sociali: un bilocale e un trilocale per uso aggregativo e poi uno spazio verde destinato a orto urbano” racconta Paoletti. “Una parte interessante di questo inizio di processo, che dovrà essere trasparente, condiviso, partecipato, è quello di creare dei comitati che siano garanti e al tempo stesso responsabili di questi spazi. Perché, anche se Netural è il gestore sociale, la gestione di questi spazi di comunità sarà in collaborazione con i comitati che avranno le chiavi e dunque la responsabilità.”

“Un primo incontro è stato fatto per spiegare che cosa volesse dire gestire un progetto di comunità all'interno di uno spazio di social housing. All'interno dello stesso incontro abbiamo parlato dell'importanza anche della creazione di un comitato e quindi della responsabilità e della serietà con le quali bisogna poi portare avanti questo progetto. Abbiamo soprattutto spiegato quanto l'attività sociale di comunità dipenda da loro e non da noi. Non saremo noi a organizzare una festa, ma questa partirà da un loro desiderio, da un loro bisogno e insieme la organizzeranno, così come l'obiettivo è di sviluppare, se loro lo riterranno importante, servizi a supporto delle famiglie che stanno all'interno.”

“Qualcuno ha già proposto un co-babysitting per i bambini, se qualche genitore è impegnato all'improvviso o anche solo per stare insieme. Qualcun altro invece un asilo per cani. Altri ancora hanno proposto delle serate in cui si magia insieme oppure si gioca a carte. Adesso gli abitanti stanno immaginando delle attività, si stanno mettendo alla prova e stanno cercando di capire come concretizzare le idee. Il ruolo del gestore sociale è di dare loro gli strumenti affinché l’idea si concretizzi poi in un evento, anche sperimentando cose piccolo come la festa di inaugurazione del complesso.”

Altra cosa importante che il gestore sociale sta cercando di trasmettere è che Matera Social Housing può diventare il luogo sociale di riferimento per l'intera città. Infatti, il complesso si trova nella zona a Sud di Matera, accanto a un quartiere popolare storico che si chiama Agna, privo di servizi aggregativi e sociali. Se questi comitati avranno un’intraprendenza tale da sviluppare progetti significativi, le persone del quartiere potranno utilizzare gli spazi comuni come luogo di aggregazione e di socialità.

Una volta definite le attività, Netural avvierà anche un processo di co-design con gli abitanti per allestire gli spazi con arredi nuovi, con oggetti che non utilizzano più oppure con altre cose da costruire. “L’obiettivo” spiega Paoletti, “è quello di utilizzare sempre delle metodologie e dei processi che portino le persone a stare insieme, a partecipare a un processo congiunto affinché si possa sviluppare un senso d’dentità più forte, un senso di appartenenza e anche un senso di orgoglio per avere fatto parte dell'intero processo”.

Quali sono gli impegni della Cooperativa?

“Come cooperativa siamo presenti dal lunedì al venerdì. Il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 18:00. Mentre il martedì e il giovedì solamente al mattino. Le risorse umane impiegate sono due. Il lavoro è in parte in presenza, all'interno del nostro ufficio, in parte da remoto perché alcune cose dobbiamo gestirle al computer”.

Avete proposto voi di istituire un comitato per la gestione degli spazi comuni?

“Sì. Abbiamo proposto, e loro hanno accettato, di creare un comitato che avesse cinque componenti: due uomini e due donne adulte, e un ragazzo o una ragazza under 18 in maniera tale che potesse prender parte ai tavoli decisionali, che potesse essere un'esperienza proprio di crescita oltre che rappresentativa di un bisogno dei ragazzi”.

Qual è il profilo degli abitanti?

“Abbiamo giovani famiglie con bambini che abitavano in appartamenti più piccoli e avevano l'esigenza di spazi più ampi e anche di uno spazio all'aperto dove fosse facile controllare i bambini, dove ci fosse maggiore qualità abitativa. Poi abbiamo dei single professionisti che cercavano a un buon prezzo di affitto un'abitazione di qualità più alta rispetto allo standard di Matera. Ci sono coppie cinquanta-sessantenni, magari con i figli adulti che sono andati via di casa. E poi c’è un gran numero di persone separate con l’esigenza di un nuovo appartamento”.

Sebbene la ricerca non abbia analizzato nel dettaglio i fondi immobiliari etici nati con lo scopo di realizzare e gestire interventi di edilizia sociale privata, appare evidente lo squilibrio tra quanto è stato finanziato in alcune regioni del Centro-Nord e il Sud Italia. Tale sproporzione è altrettanto forte se osserviamo il caso di Milano in confronto con altre città italiane.

A Milano, infatti, si contano diversi interventi di edilizia sociale privata, alcuni dei quali rappresentano oggi dei modelli virtuosi in cui ad abitazioni a canone calmierato si affiancano servizi abitativi ispirati a un modello di vita inclusivo e collaborativo. Modelli simili si sono diffusi anche in altre città italiane –Torino, Bergamo, Padova – ma appaiono come qualcosa di più puntuale, legato a esperienze circoscritte e di dimensioni contenute.

Secondo molti osservatori questo divario è dovuto a tre principali fattori. Da un lato alla carenza di un piano nazionale capace di individuare i bisogni, definire gli obiettivi e indirizzare gli investimenti. Dall’altro alla difficoltà di far lavorare insieme soggetti pubblici e privati per finanziare, incentivare, realizzare e gestire progetti di social housing. Infine a un mercato immobiliare che spinge gli investitori privati a impiegare una parte del proprio patrimonio nel settore dell’edilizia sociale privilegiando però alcune città a discapito di altre, dove il mercato è in crescita e garantisce una rendita più alta e sicura.

Da una prima osservazione sul campo, che andrà poi supportata con dati e analisi più approfondite, sembra evidente che le persone che oggi accedono agli alloggi a canone moderato provengano principalmente dal ceto medio, al quale gli interventi di edilizia privata sociale sono peraltro destinati. Tuttavia è altrettanto chiaro che tali interventi, che sono contenuti e poco diffusi, da soli non siano capaci di rispondere appieno al bisogno del ceto medio, che rappresenta più della metà della popolazione italiana, e non rispondono affatto alle necessità di coloro che hanno un reddito più basso, in aumento rispetto agli anni passati.

Quest’ultima criticità, negli interventi di social housing più riusciti, viene compensata, ma solo in minima in parte, con convenzioni tra la proprietà e soggetti del terzo settore che prendono in gestione alcuni appartamenti per destinarli a famiglie o persone in difficoltà. Oppure con accordi con gli enti pubblici per destinare altri alloggi a canone sociale. Appare evidente che gli interventi di edilizia sociale privata andrebbero realizzati all’interno di piani più strutturati e organici che sappiano leggere i diversi bisogni e dare risposte più articolate e complessive.

In tutti gli interventi visitati abbiamo constato una particolare attenzione al progetto, dalla dimensione più urbana a quella più interna, dagli spazi aperti ai luoghi per il commercio e le attività collettive e pubbliche. Tale attenzione è presente anche nelle soluzioni tecnologiche che sono tese alla sostenibilità economica e ambientale, e nelle forme di gestione e controllo dei consumi, che avviene in molti casi con applicazioni digitali appositamente studiate.

Questi aspetti rendono i progetti esaminati esempi riusciti d’innovazione urbana ed edilizia ai quali guardare con attenzione quando si pianificano nuovi interventi di trasformazione o rigenerazione urbana. Anche perché nel progettare e realizzare queste tipologie d’interventi si è formato un sapere nuovo e specifico che potrebbe rappresentare una risorsa da spendere anche in altri ambiti.

I nove casi studio sono connotati inoltre dall’offerta di spazi destinati alla comunità dove promuovere e realizzare iniziative sociali e culturali per scambiare saperi, condividere esperienze, mettere a disposizione il proprio tempo libero. Questo tema, nella maggioranza dei casi, è presentato come identitario, elemento imprescindibile di un progetto di social housing, qualcosa che caratterizza tutta la comunicazione del progetto.

Nella realtà dei fatti sono però pochi i casi in cui l’abitare collaborativo assume davvero un ruolo centrale, sia in termini di spazio dedicato a tali attività, sia in termini d’impegno nell’animazione della comunità. Inoltre, nei rari casi in cui ciò accade, lo sforzo messo in campo dai promotori del progetto non è ripagato appieno dagli abitanti, che oppongono una certa resistenza nel farsi coinvolgere, e ancora maggiormente nel formare in tempi brevi una comunità di autorganizzazione e solidale.

Un altro dato interessante sul quale riflettere è l’insieme dei soggetti che finanziano, progettano, costruiscono e gestiscono un intervento di social housing. Si va dal fondo immobiliare etico, alla società di gestione del fondo, dalla fondazione impegnata a promuovere l’edilizia a canone calmierato alle cooperative che offrono servizi abitativi.

Una pluralità di soggetti che portano competenze specifiche per ogni singola fase del percorso, ma che allo stesso tempo impiegano molte risorse e rendono più difficili le comunicazioni dirette tra la proprietà e l’abitante. Col venire meno di un dialogo diretto si rischia di perdere consapevolezza dei bisogni degli abitanti, che arrivano alla proprietà mediati da una figura intermedia rappresentata dal community manager.

In conclusione si vuole sottolineare come un tema importante, che andrebbe analizzato e studiato con attenzione, ma che non può essere approfondito da questo studio più concentrato sull’analisi di singoli casi, è la finanziarizzazione del sociale. Solo attraverso una lettura attenta di questo fenomeno è possibile avere un quadro più chiaro dei vantaggi e dei rischi dell’ingresso della finanza nel settore dell’edilizia privata sociale.

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