6. Le sfide delle politiche sulla disabilità in Italia: conclusioni e raccomandazioni

Le politiche sulla disabilità sono un tema complesso e sensibile, non da ultimo perché si rivolgono a una popolazione diversificata (in termini di natura e grado di disabilità) e a un problema che sta cambiando per le persone (poiché la disabilità può migliorare o peggiorare nel tempo) e per la società (poiché emergono e vengono meglio compresi nuovi tipi di disabilità, come i disturbi mentali altamente prevalenti). Di conseguenza, la riforma della disabilità è spesso controversa e una riforma strutturale più profonda è politicamente difficile, anche perché richiede un cambiamento culturale tra i portatori d'interesse e le istituzioni chiave, le stesse persone con disabilità e la società in generale. La riforma della disabilità è quindi un processo continuo e senza fine.

Dalla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità nel 2009, un trattato internazionale che mira a una società veramente inclusiva, i governi italiani si sono trovati di fronte alla necessità di un cambiamento strutturale nelle politiche sulla disabilità per allineare le politiche all’ideologia della CRPD. L’attuale Governo italiano ha avviato un processo di riforma, a partire dall’adozione di una legge delega, così denominata in quantodelega la responsabilità della riforma al Governo nazionale – volta ad affrontare almeno tre problemi politici di lunga data: in primo luogo, le incongruenze con la CRPD, che richiede un nuovo modo di definire e valutare la disabilità e quindi l’idoneità al supporto; in secondo luogo, la frammentazione della valutazione e del supportoalla disabilità; e in terzo luogo, le conseguenti disuguaglianze tra le regioni italiane nell’offerta dei servizi per la disabilità e nell’utilizzo delle prestazioni per la disabilità.

Questo rapporto è il risultato di un progetto finanziato dall’Unione Europea per sostenere il Governo italiano nei suoi sforzi per aggiornare le politiche sulla disabilità e aumentare l’efficienza delle prestazioni e dei servizi per la disabilità. Il progetto ha sostenuto il Governo in tre modi: i) pilotando una nuova valutazione della disabilità in quattro regioni che rappresentano la diversità sociale ed economica dell’Italia, argomento trattato nel Capitolo 5; ii) analizzando lo stato di disabilità e le valutazioni dei bisogni utilizzate in Italia, come illustrato nei Capitoli 2 e 4; e iii) analizzando il sistema della protezione sociale per le persone con disabilità in Italia, ossia le prestazioni e i servizi per la disabilità disponibili per le persone con disabilità, di cui si discute nei Capitoli 3 e 4. Questo capitolo finale riassume le conclusioni di queste analisi e fornisce raccomandazioni politiche attuabili che l’Italia deve prendere in considerazione.

L’accertamento della disabilità è fondamentale nel sistema italiano di protezione sociale, come nella maggior parte dei Paesi OCSE, in quanto regola l’ingresso nel sistema e l’ammissibilità e l’accesso a tutti i supporti per la disabilità disponibili. Le persone con disabilità in Italia si trovano di fronte a un panorama giuridico frammentato. Coesistono diverse definizioni e corrispondenti valutazioni della disabilità (status), che riflettono l’evoluzione storica del quadro giuridico. Un approccio frammentario alla legislazione sulla disabilità ha creato un sistema in cui è complicato orientarsi, con collegamenti poco chiari o mancanti tra i diversi tipi di valutazione e una pratica di valutazione dello stato di disabilità che guarda all’individuo da una prospettiva medica piuttosto ristretta.

L’Italia gestisce cinque diverse valutazioni dello stato di disabilità in parallelo (invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità per il sostegno all’occupazione), che esaminano diverse dimensioni della disabilità, ma tutte condividono un approccio medico. I medici di base hanno una notevole responsabilità nel processo, in quanto la loro documentazione della situazione sanitaria costituisce la base per la decisione di valutazione. Questa decisione viene proposta da una commissione medico-legale (con composizione variabile per le varie valutazioni di stato, spesso denominate valutazioni di base) e dopo una visita, ma nella maggior parte dei casi la commissione segue il parere del medico di base. La valutazione utilizza tabelle di corrispondenza obsolete per effettuare la determinazione dell’invalidità, creando così problemi soprattutto per i disturbi mentali che oggi sono le patologie predominanti, in particolare per i giovani adulti, per i quali un approccio puramente medico non riesce a valutare correttamente l’invalidità e, di conseguenza, a far coincidere le esigenze con le risorse disponibili.

Inoltre, l’Italia gestisce un sistema contributivo di assicurazione contro l’invalidità che effettua una propria valutazione per determinare la capacità lavorativa residua e permanente di una persona. Mentre la coesistenza di un sistema contributivo e di uno non contributivo è comune nei Paesi dell’OCSE, la disconnessione tra i due sistemi e l’eterogeneità delle pratiche di valutazione sono particolarmente evidenti in Italia.

Le valutazioni di base o dello stato di disabilità consentono alle persone di accedere a determinate prestazioni in denaro che dipendono dalla gravità della loro disabilità, o invalidità civile, misurata in percentuale (100%=massima disabilità). In seguito, spetta soprattutto alla persona seguire le autorità regionali e locali per ottenere altre prestazioni in natura (soprattutto servizi sanitari e sociali) e le corrispondenti valutazioni dei bisogni a livello regionale o locale.

Nell’ultimo decennio, sono stati compiuti sforzi legislativi per superare la frammentazione sia dello stato di disabilità che delle valutazioni dei bisogni, introducendo il concetto di punti unici di accesso a livello locale per fornire informazioni e condurre una pre-valutazione dei richiedenti. Questi punti unici di accesso dovrebbero, in teoria, guidare gli utenti attraverso il sistema ed eseguire un triage nelle valutazioni multidisciplinari e multidimensionali, svolgendo un ruolo importante nella presa in carico del cliente. In pratica, tuttavia, l’implementazione dei punti unici di accesso varia notevolmente da una regione all’altra e all’interno di una stessa regione, e – laddove tali punti di accesso esistono – vi sono notevoli limiti nel grado di integrazione che raggiungono tra le questioni sociali e sanitarie, nonché nelle funzioni che svolgono.

Rispecchiando la situazione delle valutazioni dello stato di disabilità, la situazione italiana è caratterizzata anche da una moltitudine di valutazioni dei bisogni a livello regionale e soprattutto locale. Le valutazioni dei bisogni vengono eseguite in diversi contesti e tendono a essere guidate dal servizio offerto (cioè, guidate dal fornitore) e modellate dalla divisione tra il settore sanitario e quello sociale. La molteplicità delle valutazioni rimane un punto debole nel passaggio di accesso ai programmi e ai servizi regionali e comunali. Un’unica valutazione multidisciplinare accettata dal settore sanitario e sociale semplificherebbe l’accesso ai servizi per le persone vulnerabili e migliorerebbe l’idoneità ai diversi servizi disponibili, in base alle esigenze individuali della persona, riducendo così la grande variazione e l’ineguaglianza nell’accesso ai servizi nelle varie regioni d’Italia.

Non solo esistono diverse valutazioni parallele dei bisogni all’interno delle regioni e tra di esse, ma esiste anche una moltitudine di strumenti utilizzati in queste valutazioni, che vanno da un approccio molto discrezionale a uno più strutturato e sistematico. Diverse regioni utilizzano una variante della ‘Scheda per la Valutazione Multidimensionale delle persone con Disabilità’, uno strumento sviluppato in Veneto per standardizzare la fornitura di livelli essenziali di assistenza sociale e sanitaria. Nessuno di questi strumenti, tuttavia, è stato testato in modo scientifico per quanto riguarda la loro validità e la loro capacità di identificare i bisogni associati ai problemi di funzionamento di una persona.

Infine, c’è un ampio scollamento apparente tra le valutazioni dello stato di disabilità e le valutazioni dei bisogni subregionali, con le informazioni della prima che sono di utilità limitata per la seconda a causa della prospettiva puramente medica, del formato dell’output e della condivisione limitata dei dati. Ciò comporta una duplicazione degli sforzi a tutti i livelli di governo, con le valutazioni dei bisogni, ad esempio, che spesso richiedono l’input iniziale del medico di base, piuttosto che basarsi sulle informazioni fornite per la valutazione dello stato di disabilità.

La legge delega, entrata in vigore alla fine del 2021, affronta alcuni dei punti deboli del sistema di valutazione della disabilità in Italia e propone di allontanarsi dalla visione medica ristretta della disabilità e di raggiungere una certa semplificazione e armonizzazione del sistema in tutto il Paese, anche come base per un corrispondente cambiamento e armonizzazione del sistema di protezione sociale per le persone con disabilità. La legge rimane piuttosto generica sull’imminente riforma della protezione sociale, mentre è piuttosto precisa sull’imminente riforma dell’accertamento della disabilità, compresa la richiesta di un unico ente nazionale per effettuare gli accertamenti dello stato di disabilità.

In parte riprendendo il ragionamento alla base della legge delega e in parte andando oltre, il presente rapporto trova diverse ragioni e aree in cui il sistema di valutazione della disabilità in Italia ha urgente bisogno di essere riformato. L’Italia è incoraggiata ad adottare misure di riforma nelle seguenti direzioni.

Includere il funzionamento e le prestazioni nella valutazione dello stato di disabilità. La valutazione della disabilità in Italia utilizza ancora un approccio prevalentemente medico, non in linea con la più recente visione e definizione internazionale della disabilità. L’attenzione al deficit della funzionalità nel determinare le percentuali di invalidità civile non considera l’ambiente effettivo in cui le persone vivono e la loro capacità di funzionamento, non riuscendo così a valutare la vera entità della disabilità e non sostenendo l’equità e l’inclusione. Inoltre, l’uso di tabelle vecchie di 30 anni per tradurre le informazioni sulle menomazioni in una percentuale di invalidità civile implica che molte disabilità sono coperte in modo inadeguato, soprattutto i disturbi mentali, che sono frequenti e spesso molto invalidanti. L’adozione della Scheda per la valutazione della disabilità dell’OMS (WHODAS) nell’attuale processo di valutazione porterebbe a una valutazione più accurata della disabilità di una persona.

Utilizzare i punteggi WHODAS per segnalare la necessità di una valutazione più approfondita. L’evidenza del pilota nelle quattro regioni italiane mostra che una valutazione puramente medica identifica un gruppo piuttosto diverso come affetto da disabilità rispetto allo strumento WHODAS basato sull’ICF. I decisori politici dovranno stabilire il peso da attribuire alle informazioni di WHODAS rispetto a quelle dei dati clinici. La valutazione del pilota WHODAS ha concluso che i punteggi WHODAS in Italia potrebbero essere utilizzati al meglio per segnalare la discrepanza tra la valutazione medica e quella funzionale, richiedendo così una valutazione più approfondita della situazione della persona. L’OCSE raccomanda di segnalare circa un terzo di tutti i casi. Sebbene il Governo sia impegnato nella riforma, per soddisfare uno dei criteri centrali della CRPD che l’Italia ha ratificato più di 12 anni fa, è probabile che l’attuazione del cambiamento incontri delle resistenze. Sarà quindi importante comunicare questo cambiamento in modo molto chiaro, per conquistare le principali portatori d'interesse e l’opinione pubblica.

Coinvolgere più assistenti sociali e altre professioni nel processo di valutazione. In relazione all’orientamento medico della valutazione della disabilità in Italia, il coinvolgimento di professionisti diversi dai medici è limitato. I medici di base avviano il processo, raccolgono le prove mediche che il richiedente deve fornire per il caso e presentano il dossier medico all’autorità di valutazione. Le commissioni medico-legali, dominate da medici con diverse specializzazioni, di solito decidono in base ai dati clinici presentati dal medico di base. Questa impostazione contribuisce all’uso prevalente di criteri medici e alla scarsa considerazione dell’ambiente e della vita effettivi delle persone. ciò rappresenta un forte argomento per dare agli assistenti sociali un ruolo maggiore nell’avvio e nella preparazione della documentazione per le valutazioni di disabilità. Il progetto pilota WHODAS ha dimostrato che gli assistenti sociali sono in grado di somministrare il questionario WHODAS e di valutare la situazione di vita e la disabilità delle persone.

Affrontare la frammentazione e la duplicazione delle valutazioni dello stato di disabilità. L’Italia conduce attualmente cinque diverse valutazioni dello stato di disabilità in parallelo, con criteri, procedure e commissioni di valutazione differenti, ma con uno scopo molto simile: determinare l’idoneità per una serie di prestazioni economiche. Questa frammentazione del sistema e la duplicazione non sono né efficienti né giustificate. In futuro, questa frammentazione dovrebbe essere eliminata sostituendo le cinque valutazioni dello stato di disabilità con un’unica valutazione che si concentri sulla capacità di una persona di svolgere le attività della vita e di partecipare alla vita sociale (che è influenzata sia dalla condizione di salute/dalla limitazione funzionale che dall’ambiente in cui si vive). Ciò richiede un’unificazione delle varie definizioni di disabilità coesistenti. La legge delega è un po’ vaga su questo tema, ma la riforma non dovrebbe rifuggire da un cambiamento radicale. Mantenere cinque diverse definizioni e valutazioni e passare a un approccio funzionante all’interno di ciascuna di esse, in modi diversi e in misura diversa, significherebbe perpetuare le differenze, la mancanza di trasparenza e l’inefficienza.

Affrontare la frammentazione e la duplicazione delle valutazioni dei bisogni. Rispecchiando l’inefficiente molteplicità delle valutazioni dello stato di disabilità, anche le regioni e i Comuni italiani operano una serie di valutazioni dei bisogni per determinare l’idoneità ai servizi speciali e alle prestazioni in natura. Queste valutazioni spesso differiscono tra le regioni e all’interno delle stesse – con la variazione all’interno della regione che riflette due problemi: in primo luogo, la totale disconnessione tra l’ambito sanitario (che è sotto l’autorità regionale) e l’ambito sociale (che è sotto l’autorità comunale); in secondo luogo, l’approccio orientato ai servizi delle valutazioni dei bisogni in Italia, dove spesso viene utilizzata una valutazione diversa per determinare l’idoneità a ogni servizio disponibile. Mantenere un sistema a due livelli, con una valutazione dei bisogni che segue una valutazione dello stato di disabilità, è un modo pratico di procedere e un approccio applicato in molti Paesi dell’OCSE. Tuttavia, l’ideale sarebbe unificare sia la valutazione dello stato di disabilità che la valutazione dei bisogni. Un’unica valutazione dei bisogni dovrebbe essere utilizzata in tutte le regioni e Comuni e all’interno delle stesse, per identificare i bisogni delle persone e determinare il diritto a diversi servizi sanitari e sociali; questa valutazione dovrebbe concentrarsi solo sui bisogni delle persone, evitando qualsiasi pregiudizio legato alla disponibilità e alla capacità di servizi specifici.

Migliorare il collegamento tra la valutazione dello stato di disabilità e la valutazione dei bisogni. Nell’attuale struttura di valutazione, non solo le valutazioni dello stato di disabilità e dei bisogni sono frammentate, ma non c’è nemmeno un collegamento tra le due. In un sistema più efficace ed efficiente, la valutazione dello stato di disabilità fornirebbe un input significativo per la successiva valutazione dei bisogni, e le informazioni raccolte nella valutazione di base verrebbero condivise con le autorità responsabili della valutazione dei bisogni. Un approccio di questo tipo richiede la raccolta e la condivisione dei dati in modo sistematico e, idealmente, elettronico. In questo modo, le persone la cui situazione viene valutata non dovranno fornire ripetutamente le stesse informazioni. Superare la frammentazione delle valutazioni dello stato di disabilità e dei bisogni faciliterà il flusso di informazioni tra le autorità di valutazione responsabili. I dati non solo dovrebbero essere condivisi, ma alcuni di essi dovrebbero anche essere resi disponibili al pubblico, per favorire la trasparenza e promuovere un dibattito pubblico obiettivo. Ad esempio, i rapporti periodici sul numero di persone che richiedono e ricevono uno stato di disabilità, per età, sesso e regione, potrebbero fornire prove aggiornate sull’attuazione della legislazione in tutta Italia.

Riconsiderare il cambiamento previsto nella struttura di governance per la valutazione della disabilità. Con la riforma costituzionale in Italia, circa 20 anni fa, è stata devoluta alle regioni una maggiore responsabilità per l’accertamento dello stato di disabilità, anche se la decisione finale è rimasta all’INPS e alcune regioni, o province, hanno scelto di delegare la loro nuova responsabilità all’INPS. La legge delega prevede un cambiamento nella struttura di governance, nominando un’unica entità che gestisca le valutazioni dello stato di disabilità in tutto il Paese in modo coerente. È discutibile se questa sia la risposta migliore alla grande differenza tra le regioni nella percentuale di persone in età lavorativa che richiedono una valutazione dello stato di disabilità – un fenomeno legato alle grandi differenze regionali nello stato dell’economia e del mercato del lavoro. Un’alternativa alla ricentralizzazione delle valutazioni della disabilità sarebbe il rafforzamento della capacità delle regioni, soprattutto perché le regioni continueranno ad avere responsabilità fondamentali in settori come la salute e i servizi sociali. Mantenere la valutazione dello stato di disabilità nelle mani delle regioni, almeno in una certa misura, faciliterebbe la riforma strutturale e impedirebbe un’ulteriore disconnessione tra lo stato di disabilità e la valutazione dei bisogni.

Rafforzare l’obiettività e ridurre la discrezionalità nelle valutazioni della disabilità. Sia lo stato di disabilità che le decisioni di valutazione dei bisogni in Italia comportano notevoli elementi di discrezionalità, che a loro volta creano potenzialmente una notevole disuguaglianza tra situazioni di vita simili. Ciò si spiega con la mancanza di un approccio standardizzato alle valutazioni e con la mancanza di test scientifici sulle caratteristiche degli strumenti di valutazione esistenti. Nel caso della valutazione dello stato di disabilità, l’inclusione di WHODAS sarebbe un modo per ridurre la discrezionalità e raggiungere la correttezza e l’equità nella decisione. Versioni adattate di WHODAS potrebbero essere utilizzate anche per la valutazione dello stato di disabilità dei minori e degli anziani. Per la valutazione dei bisogni, l’unificazione delle valutazioni tra regioni, province e comuni, e per il settore sanitario e sociale, sarebbe l’unico modo per ridurre la discrezionalità. Ciò potrebbe essere fatto confrontando e valutando gli strumenti attualmente in uso nelle regioni e scegliendo i più performanti tra tutti gli strumenti disponibili, oppure sviluppando e testando un nuovo strumento concordato da tutte le regioni e i comuni.

Aiutare le persone con disabilità a orientarsi nel sistema complesso. Nel sistema attuale, la misura in cui le persone con disabilità ricevono tutte le prestazioni e i servizi nazionali, regionali e locali a cui potrebbero potenzialmente avere diritto, dipende in misura considerevole dalla loro capacità di orientarsi all’interno del sistema. Questa situazione è stata anche il punto di partenza per l’implementazione dei Punti unici di Accesso (PUA) in molte regioni e Comuni. I PUA sono un’idea sensata che viene scarsamente attuata nella pratica, soprattutto perché il sistema di disabilità rimane complesso e oscuro per le persone che non sono esperte di amministrazione. Una semplificazione e unificazione delle valutazioni dello stato di disabilità e dei bisogni faciliterebbe notevolmente i compiti e il ruolo dei PUA. Fino ad allora, lo status dei PUA dovrebbe essere migliorato, in modo che possano essere ciò che sono destinati a essere: il primo e unico punto di accesso all’intero sistema di disabilità, comprese tutte le valutazioni (e quindi tutte le prestazioni e i servizi) sia a livello nazionale che subnazionale. Sarà inoltre importante raggiungere un maggior grado di unificazione nell’organizzazione delle PUA e ottimizzare le loro risorse umane in tutto il territorio.

Pensare a una rivalutazione sistematica dei diritti e delle prerogative della disabilità. La legge delega non fa riferimento a due questioni importanti. In primo luogo, non affronta la questione della rivalutazione (sulla quale anche i dati sono del tutto assenti) dello stato di disabilità e dei bisogni di una persona. La rivalutazione è un aspetto importante di una politica sulla disabilità efficace ed equa, perché la disabilità può migliorare o peggiorare – in linea con i cambiamenti delle condizioni di salute e/o dell’ambiente sociale e di supporto. In molti casi, quindi, una rivalutazione regolare è giustificata e può rafforzare la credibilità e l’accessibilità di un sistema di protezione sociale generoso. Una seconda questione, in parte correlata, che viene affrontata marginalmente nella legge delega, è il trattamento dei diritti esistenti. Un Paese può scegliere di non trattare tutti i diritti esistenti o di rivalutare tutti o alcuni gruppi in linea con le nuove regole, strumenti e procedure; uno dei due approcci può essere considerato più “equo” dell’altro, in modi diversi. La rivalutazione dei diritti esistenti sarà particolarmente appropriata se e quando cambierà anche il sistema di protezione sociale.

Valutare il sistema di protezione sociale per le persone con disabilità in Italia e comprendere l’interazione tra le politiche nazionali (per lo più vari tipi di prestazioni sociali) e le politiche regionali e locali (per lo più prestazioni in natura e servizi) è difficile, per due motivi: in primo luogo, a causa della complessità del sistema – che rappresenta una sfida per le persone con disabilità – e in secondo luogo, a causa della mancanza di prove in tutti i settori per misurare l’efficacia e l’efficienza delle politiche per la disabilità in atto. È quindi difficile valutare l’impatto effettivo e le prestazioni del sistema. Le conclusioni e le raccomandazioni politiche si basano quindi su prove limitate, molto parziali e spesso aneddotiche.

Sembra che le prestazioni di disabilità e i servizi per la disabilità disponibili in Italia siano abbastanza completi, con una serie di pagamenti contributivi e non contributivi per coprire la perdita di reddito e i costi aggiuntivi legati alla disabilità di una persona e, allo stesso modo, un ventaglio completo di interventi forniti dalle autorità comunali di assistenza sociale, dalle autorità sanitarie regionali e dai servizi per l’impiego per rispondere alle diverse esigenze delle persone con disabilità. In apparenza, non vi è alcuna indicazione di una particolare lacuna nei servizi o di una mancanza di servizi comunemente disponibili in altri Paesi dell’OCSE. Tuttavia, al di là di questa osservazione generale, ci sono diverse questioni importanti di potenziale preoccupazione.

I dati comparativi tra Paesi mostrano che la spesa sociale pubblica per le politiche sulla disabilità in Italia è ben al di sotto della media OCSE e che la maggior parte della spesa viene utilizzata per le prestazioni di invalidità. La legge delega prevede che tutti i cambiamenti debbano rimanere all’interno dell’attuale dotazione di bilancio. La ristrutturazione, la semplificazione e l’unificazione della valutazione della disabilità dovrebbero rendere il sistema più efficiente e liberare risorse. Tuttavia, nel lungo periodo il livello di spesa per la disabilità potrebbe non essere sufficiente per realizzare il passaggio previsto a un approccio più personalizzato alla disabilità, basato su piani di vita individuali e incentrato sull’autosufficienza. Già oggi, molte persone con disabilità in Italia non hanno accesso al supportoe con una maggiore attenzione al funzionamento nella valutazione della disabilità, questo gruppo potrebbe rivelarsi più numeroso di quanto si sappia attualmente.

L’adeguatezza dei pagamenti per la disabilità e dei servizi forniti in Italia è difficile da valutare, in quanto dipende molto dal pacchetto di supportoche le persone ricevono – un’area su cui si sa molto poco. Il livello dei pagamenti di invalidità non contributivi è molto basso, ad esempio, ma molte persone ricevono pagamenti aggiuntivi, come l’indennità di accompagnamento, per coprire le loro esigenze e i loro costi. I dati sulle fonti di reddito delle famiglie italiane suggeriscono che le persone con disabilità fanno affidamento sulle prestazioni sociali in misura maggiore rispetto alla media dell’OCSE Europa. Tuttavia, questo risultato è determinato da prestazioni diverse da quelle di disabilità, tra cui i pagamenti per il pensionamento (anticipato), le indennità di disoccupazione e l’assistenza sociale. I livelli di povertà in Italia per le famiglie in cui vivono persone con disabilità sono paragonabili a quelli di altri Paesi e a quelli delle persone senza disabilità. In Italia, contrariamente ad altri Paesi, il sistema di prestazioni più ampio (non solo le prestazioni di invalidità) sembra ridurre i rischi di povertà più per le persone con disabilità che per le altre persone.

L’adeguatezza dei servizi per la disabilità disponibili in Italia è ancora più difficile da valutare, mancando informazioni sistematiche sul numero di utenti dei servizi e sul numero di persone in attesa o bisognose di servizi, ma che attualmente non ne ricevono. I dati limitati disponibili suggeriscono che la spesa pro-capite per gli utenti dei servizi è piuttosto elevata, sia per i servizi di assistenza domiciliare e per i servizi volti a migliorare l’autosufficienza, sia per i servizi per l’impiego introdotti di recente. Il numero di utenti di questi servizi, tuttavia, è molto basso rispetto al gruppo potenziale di utenti, comunque definito. L’Italia sembra quindi affrontare una sfida di accesso, non una sfida di generosità, in quanto coloro che possono accedere ai servizi sembrano ben supportati.

Ci sono anche due problemi più generali nel sistema italiano di prestazioni e servizi per la disabilità. In primo luogo, esiste un enorme divario Nord-Sud. Le regioni più povere del Sud del Paese non hanno la capacità e le risorse per fornire servizi in numero sufficiente; di conseguenza, sia il numero di utenti dei servizi che la spesa pro-capite per i servizi sono inferiori rispetto alla parte più ricca del Paese. A sua volta, il numero di beneficiari di prestazioni di disabilità, in particolare di quelle non contributive, è molto più alto nel Sud che nel Nord, con un tasso di beneficiari che varia da meno del 2% della popolazione in età lavorativa in alcune regioni a più del 7% in altre. Questa differenza è il risultato di due caratteristiche del sistema previdenziale: in primo luogo, il fatto che tutte le prestazioni sono finanziate dal bilancio nazionale e, in secondo luogo, il fatto che i pagamenti non contributivi sono più interessanti nelle regioni con meno posti di lavoro e salari più bassi, e l’idoneità ai pagamenti soggetti a verifica delle condizioni economiche è molto più probabile. Qualsiasi riforma delle politiche sulla disabilità dovrà affrontare questi problemi di equità.

In secondo luogo, in Italia esiste anche un divario significativo tra disabilità grave e disabilità moderata. In linea di massima, gli assegni di invalidità e i servizi per la disabilità in Italia si rivolgono alle persone con disabilità grave (ad esempio, il 50% di loro riceve un assegno di invalidità), mentre le persone con disabilità moderata e le persone con disturbi mentali altamente prevalenti si affidano nella maggior parte dei casi al sistema di protezione sociale generale (ad esempio, solo il 10% di loro riceve un assegno di invalidità) e hanno difficoltà ad accedere ai servizi per la disabilità. Anche i servizi per l’occupazione dei disabili sono riservati alle persone con un livello di disabilità piuttosto significativo. A sua volta, l’integrazione della disabilità in tutte le politiche e le pratiche è una questione chiave per l’Italia, che punta a riforme più ampie per migliorare i risultati sociali e occupazionali per tutti, a beneficio anche delle persone con disabilità.

Infine, ci sono anche questioni sistemiche significative che l’Italia potrebbe affrontare, legate alla complessità e alla frammentazione di un sistema che coinvolge molti attori con responsabilità condivise tra il livello nazionale (prestazioni), il livello regionale (servizi sanitari) e il livello locale (servizi sociali). La natura decentrata dello Stato e la distribuzione delle responsabilità richiedono un livello significativo di condivisione delle informazioni e di cooperazione per evitare la duplicazione dei servizi da un lato e le lacune nei servizi dall’altro. A livello subnazionale, le autorità sanitarie e sociali forniscono supporti distinti che in molti casi si sovrappongono, ad esempio per quanto riguarda l’assistenza domiciliare, ma il coordinamento tra i due settori è limitato. Allo stesso modo, ci sono sovrapposizioni tra gli sforzi nazionali e regionali, ad esempio per il supporto all’autosufficienza e all’assistenza a lungo termine, coperta da prestazioni in denaro e congedi familiari a livello nazionale e da prestazioni e servizi in natura a livello regionale.

Questo rapporto rileva diversi punti di forza e di debolezza nella protezione sociale delle persone con disabilità in Italia, e diverse ragioni per cui è necessaria una riforma per rafforzare l’efficienza e l’efficacia del sistema e affrontare le disuguaglianze di lunga data. L’Italia farebbe bene a prendere in considerazione l’idea di intraprendere una riforma secondo le seguenti linee.

In Italia si sa molto poco su quali programmi servano quali gruppi della popolazione, il che rende difficile valutare le prestazioni del sistema (copertura, adeguatezza ed efficienza). Si potrebbe fare molto per migliorare la base di prove attraverso la raccolta sistematica e la condivisione dei dati.

Investire in sistemi moderni di gestione dei dati. Attualmente, i servizi locali non sono registrati in un unico sistema informatico a livello individuale, il che rende molto difficile mappare l’insieme di prestazioni e servizi che una persona sta ricevendo, in particolare quando i servizi sono ricevuti sia dal settore sociale che da quello sanitario. Una soluzione che consenta di registrare questi dati e di archiviarli in data warehouse per poi collegarli tra istituzioni e set di dati, è essenziale per identificare le aree chiave per la riforma e per facilitare il lavoro amministrativo dei dipendenti pubblici. L’iniziativa del settore sociale di implementare un sistema informatico unico (SIOSS) è benvenuta, ma occorre impegnarsi per garantire che il sistema non imponga barriere tecniche per collegare i dati del settore sociale con quelli del settore sanitario o con i dati sulle prestazioni a livello nazionale.

Utilizzare un’unica autorità centrale per collegare e archiviare i dati amministrativi. Il collegamento dei dati amministrativi tra le varie istituzioni pone delle sfide tecniche e legali che molti Paesi hanno superato istituendo un’unica autorità centrale responsabile del collegamento dei dati. In questo modo si evita anche la necessità di accordi bilaterali per lo scambio di dati e di costruire capacità tecniche in ogni istituzione. Nella maggior parte dei Paesi, questa singola autorità centrale è l’Istituto nazionale di statistica. L’Istituto nazionale di statistica italiano (ISTAT) è ben posizionato, in quanto possiede la capacità tecnica e analitica necessaria.

Affrontare i problemi di privacy. Oltre alle barriere tecniche derivanti dalla mancanza di un sistema informatico unico, le autorità italiane hanno difficoltà a condividere e ricevere dati tra le varie istituzioni a causa delle preoccupazioni sulla privacy. La normativa sulla protezione dei dati viene spesso utilizzata come scudo per impedire qualsiasi scambio di dati, applicando in molti casi norme più severe rispetto alla legislazione europea (GDPR). Lo scambio di dati tra istituzioni richiede la creazione di quadri giuridici per garantire la protezione dei dati personali e lo sviluppo di solide linee guida per l’utilizzo e la condivisione di tali dati.

L’inefficienza del sistema in Italia è legata alla mancanza di cooperazione tra i livelli di governo e ai meccanismi di finanziamento associati. Promuovere la cooperazione e razionalizzare i finanziamenti potrebbe aumentare la trasparenza sia per gli utenti che per le istituzioni erogatrici, garantendo così un migliore utilizzo delle risorse nazionali e subnazionali.

Applicare le normative che favoriscono la cooperazione. Il panorama normativo comprende iniziative promettenti per promuovere la cooperazione tra le istituzioni, ma la loro attuazione è debole. Questo è in particolare il caso della cooperazione tra il settore sanitario e quello sociale. Il regolamento stabilisce l’importanza di un unico punto di accesso per fornire servizi sanitari e sociali coordinati, con un’unica valutazione delle esigenze per determinare piani personalizzati. Sono necessari sforzi concertati per rendere i punti unici di accesso una realtà. Il Governo nazionale potrebbe assumere un ruolo più incisivo attraverso il monitoraggio e la valutazione sistematici e l’offerta di incentivi finanziari per le regioni che desiderano raggiungere un livello più elevato di integrazione dei servizi.

Creare un forum per condividere le esperienze e imparare gli uni dagli altri. Imparare dalle buone prassi di altri portatori d'interesse – tra le regioni, tra i Comuni e le province all’interno delle regioni, e tra il settore sanitario e quello sociale – può essere utile per costruire la capacità amministrativa, migliorare la programmazione e promuovere la cooperazione. L’apprendimento interistituzionale sistematico dovrebbe essere facilitato e promosso.

Sviluppare meccanismi di finanziamento che promuovano un migliore coordinamento dei supporti. Il consolidamento delle fonti di finanziamento sarebbe il modo migliore per consolidare i programmi subnazionali con obiettivi simili.. Con fondi nazionali consolidati per prestazioni e servizi in natura forniti a livello subnazionale, sarebbe più facile per le regioni decidere dove integrare i fondi nazionali con le proprie risorse. In alternativa, i fondi nazionali potrebbero essere indirizzati a determinati obiettivi più ampi (come l’inclusione, la vita indipendente o l’accessibilità) senza essere destinati a programmi specifici, dando così agli enti regionali un maggiore controllo sull’uso efficiente di questi fondi. Infine, si potrebbe ottenere un migliore coordinamento e integrazione dei servizi tra il settore sanitario e quello sociale – per quanto riguarda i servizi residenziali, semi-residenziali e, soprattutto, di assistenza domiciliare – ed evitare la duplicazione dei servizi, attraverso una programmazione di bilancio integrata e trasparente.

Le grandi differenze territoriali di reddito e l’attuale finanziamento del sistema fanno sì che le regioni più povere si affidino pesantemente alle prestazioni sociali finanziate a livello nazionale e forniscano solo un supporto limitato al funzionamento della persona attraverso prestazioni e servizi in natura. Rettificare questa situazione e migliorare la capacità delle regioni economicamente più deboli di fornire servizi efficaci sarà fondamentale, ma non si tratta di un esercizio facile.

Affrontare le debolezze strutturali del mercato del lavoro e le disparità geografiche. Le regioni più povere in Italia hanno mercati del lavoro più deboli, salari più bassi e livelli più alti di lavoro informale. Questi fattori influenzano la dipendenza dalle prestazioni sociali e si rafforzano a vicenda, in quanto un’elevata dipendenza dalle prestazioni sociali promuove il lavoro informale. Affrontare questi problemi strutturali economici e del mercato del lavoro in tutta Italia è fondamentale. Nell’ultimo decennio, le Indagini Economiche dell’OCSE per l’Italia hanno identificato alcune delle aree chiave da affrontare, tra cui il miglioramento delle competenze e dell’istruzione, l’introduzione di politiche attive per il mercato del lavoro, l’incremento della creazione di posti di lavoro e il ripensamento del sistema fiscale, per superare il divario Nord-Sud.

Promuovere l’armonizzazione dei servizi attraverso un focus sulle prestazioni. Per armonizzare l’offerta dei servizi sanitari e sociali, il Governo nazionale ha imposto degli standard minimi di servizio. Tuttavia, molte regioni non riescono a soddisfare questi standard, senza alcuna conseguenza. L’attuale monitoraggio degli standard minimi si concentra su una serie di indicatori lineari, piuttosto che concentrarsi sulle prestazioni del sistema nel suo complesso. L’utilizzo del regolamento esistente per armonizzare l’offerta dei servizi, rendendolo vincolante e focalizzato sulle prestazioni, aiuterebbe a rafforzare la qualità dei servizi nelle aree con prestazioni insufficienti.

Dare priorità alla fornitura di servizi rispetto all’offerta di prestazioni sociali. Il necessario spostamento dell’attenzione dall’offerta di prestazioni all’offerta di servizi per l’inclusione non sarà raggiunto senza incentivi finanziari per le regioni e i comuni. Seguendo l’esempio della Danimarca, e ribaltando la logica del sistema attuale, il Governo italiano potrebbe garantire la copertura totale dei costi per i servizi erogati a livello subnazionale, imponendo al contempo una significativa compartecipazione regionale per le prestazioni di invalidità non contributive, per rendere attraente per le regioni e i Comuni spostare la loro attenzione sulla fornitura di servizi.

L’inclusione nel mercato del lavoro delle persone con disabilità è bassa in Italia, anche se non necessariamente inferiore a quella di altri gruppi vulnerabili della popolazione. In futuro, l’inclusione lavorativa dovrebbe diventare una priorità chiave, il che implica uno spostamento dell’attenzione verso le prestazioni e i servizi in natura e un cambiamento delle normative per promuovere il lavoro.

Concentrarsi sull’intervento precoce. Per promuovere efficacemente l’occupazione delle persone con disabilità è necessario intervenire non appena si manifestano le barriere all’occupazione. In Italia, dove le certificazioni di disabilità svolgono un ruolo così importante per ricevere assistenza, quando le persone con disabilità ricevono un supporto finanziario e occupazionale, spesso è troppo tardi. Ciò implica che si dovrebbe fare molto di più per le persone con patologie – molte delle quali potrebbero trasformarsi in disabilità – in una fase precedente e prima di richiedere la certificazione di disabilità, ossia nel momento in cui le persone cercano aiuto attraverso i programmi generali di protezione sociale, in particolare le indennità di malattia e di disoccupazione.

Sviluppare servizi pubblici per l’impiego efficaci e responsabili. Nonostante i recenti miglioramenti, i servizi pubblici per l’impiego in Italia hanno un ruolo limitato nel sostenere la ricerca di lavoro attraverso programmi attivi del mercato del lavoro. Questa debolezza generale influisce sul sostegno all’occupazione fornito alle persone con disabilità. C’è un’urgente necessità di migliorare la capacità dei servizi pubblici per l’impiego di fornire politiche attive del mercato del lavoro in generale, e di aumentare la responsabilità per le persone vulnerabili in cerca di lavoro, come le persone con disabilità. È inoltre necessario ampliare i servizi, passando dall’assistenza alle sole persone inserite nelle liste di collocamento per le quote di disabilità a un gruppo più ampio, con un’attenzione particolare ai disturbi mentali.

Collegare la prestazione di invalidità alle disposizioni di attivazione. Molti Paesi dell’OCSE hanno introdotto percorsi di riabilitazione completi per chi richiede una prestazione di invalidità e/o programmi temporanei che precedono la richiesta di una prestazione di invalidità (ad esempio, Austria, Paesi Bassi, Norvegia, Svizzera), e molti forniscono incentivi finanziari a chi lavora mentre riceve le prestazioni. In Italia, la ricezionedi una pensione di invalidità scoraggia il lavoro, soprattutto per le persone con disabilità parziale e capacità lavorativa parziale. È urgente rivedere la complementarietà delle pensioni di invalidità con il lavoro e considerare l’introduzione di percorsi di riabilitazione e di disposizioni di attivazione adeguate alla capacità.

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