1. Il settore abitativo italiano nella prospettiva internazionale

Peter Jarrett

Peter Jarrett, consulente del Dipartimento Economia dell'OCSE, ha redatto questo capitolo con l'analisi statistica e l'assistenza editoriale rispettivamente di Manuel Bétin, economista junior, e Nathalie Bienvenu, coordinatrice dei programmi e della comunicazione, entrambi del Dipartimento Economia dell'OCSE. Boris Cournède, responsabile ad interim della Divisione Economia pubblica, e Volker Ziemann, economista, entrambi del Dipartimento Economia dell'OCSE, hanno fornito indicazioni e revisionato il capitolo. Sono grati a Elisa Guglielminetti e Federica Ciocchetta, Banca d'Italia, e a Catherine MacLeod, all'epoca responsabile del desk Italia presso il Dipartimento di Economia dell'OCSE, per i preziosi commenti su una versione precedente e a Luiz de Mello, Direttore degli studi politici del Dipartimento di Economia dell'OCSE, per la sua guida. Si ringraziano Lillie Kee e Inés Gomez Palacio, tutti del Dipartimento di Economia dell'OCSE, per l'assistenza tecnica a sostegno del progetto. Esprimono gratitudine a Raffaele Capuano, Consigliere economico della Delegazione permanente d'Italia presso l'OCSE, per aver avviato, ideato e guidato il progetto. La Missione Permanente d'Italia presso le Organizzazioni Internazionali ha sostenuto questo progetto.

  • L'Italia è da tempo caratterizzata da un sistema che impone a buona parte dei cittadini a reddito medio di fare ampiamente affidamento sulla propria famiglia per l'acquisto della casa di proprietà, piuttosto che sui finanziamenti ipotecari. L'offerta di mutui risente di norme in materia di pignoramento orientate a favore dei mutuatari.

  • In Italia il tasso di proprietà delle abitazioni si colloca leggermente al di sopra della media dell'OCSE, con un'esigua e decrescente quota di alloggi sociali, oltre a un livello sostanziale di occupazione informale. Come emerge dai dati dell'OCSE, nel modello sociale italiano basato sulla famiglia, la mobilità residenziale è relativamente scarsa, in parte a causa della prevalenza della proprietà e soprattutto della proprietà diretta (senza prestiti associati). Per rimediare a tale carenza, si deve ricorrere a un cambiamento delle politiche abitative, anche se ciò potrebbe rilevarsi inefficace nel breve periodo, dato che i fattori culturali e storici determinanti evolvono lentamente nel tempo.

  • L'accessibilità economica è un nodo cruciale in Italia, ma, a differenza della maggior parte dei Paesi dell'OCSE, non è peggiorata negli ultimi decenni. Dal 2005 almeno, l'inflazione dei prezzi delle case è stata insolitamente contenuta, il che ha salvaguardato l'accessibilità media. Tuttavia, la povertà abitativa è relativamente alta tra i proprietari di casa, ma vicina alla media dell'OCSE tra gli affittuari del settore privato. Il costo degli alloggi è un fattore determinante per la migrazione interregionale. Il sovraffollamento è piuttosto comune, anche se dal 2012 si sono osservati notevoli miglioramenti. Altri elementi legati al disagio abitativo, la presenza di abitazioni inadeguate e la povertà energetica sono aspetti più diffusi in Italia rispetto alla media dell'OCSE. Anche il degrado urbano è significativo, soprattutto nelle regioni meridionali. La mancanza di fissa dimora, sebbene sia difficile da misurare in modo uniforme tra i vari Paesi, sembra essere superiore alla media e sta diventando sempre più comunemente di lunga durata.

  • L'accessibilità economica degli alloggi soffre di un'offerta meno elastica rispetto ad altri Paesi. A causa della debolezza demografica, il patrimonio abitativo è cresciuto a un ritmo piuttosto lento dal 1990. Le prospettive demografiche sono poco favorevoli, ma l'atteso aumento del numero di cittadini che vivono da soli farà salire il numero di nuclei familiari. Nonostante ciò, la prevista e lenta crescita del reddito reale potrebbe tradursi in una modesta espansione del patrimonio abitativo e in una maggiore domanda di alloggi. Le politiche devono concentrarsi sulla ristrutturazione del patrimonio abitativo esistente e sulla costruzione di un maggior numero di alloggi sociali e abitazioni a prezzi accessibili.

  • Il settore abitativo svolge un ruolo rilevante nella produzione di risultati ambientali. In Italia, esso è responsabile di una quota di emissioni di polveri sottili superiore alla media. Tuttavia, il consumo energetico pro capite nel settore residenziale è vicino alla media dell'OCSE, sebbene sia aumentato negli ultimi decenni e sia molto più elevato rispetto a Paesi comparabili come la Spagna e il Portogallo. Le simulazioni indicano che l'ammodernamento del patrimonio abitativo ai fini della decarbonizzazione comporterà costi elevati. Il Superbonus 110% è una misura ambiziosa e valida per incoraggiare gli sforzi in tal senso, ma potrebbe essere troppo generoso e sembra aver dato luogo a numerose truffe.

  • Lo Stato si è disimpegnato dall'intervenire nel settore abitativo, in termini sia di sostegno diretto alle famiglie sia di fornitura di alloggi sociali. Allo stesso tempo, ha mantenuto il controllo sulle politiche e sui programmi, ma ne ha demandato l'attuazione alle regioni e ai comuni, soprattutto per quanto riguarda la pianificazione territoriale, che di conseguenza è frammentata. Tale assetto lascia spazio a un'opposizione basata sul cosiddetto approccio "not-in my-backyard" ("non nel mio cortile") da parte degli abitanti insediati nei confronti di nuove costruzioni o ristrutturazioni radicali. La spesa pubblica destinata al settore abitativo è piuttosto bassa, soprattutto in termini di sussidi per l'alloggio, ma i grandi comuni hanno adottato alcune misure per la costruzione di alloggi a prezzi accessibili, come i Piani di zona.

  • Il sistema fiscale applicato agli immobili è complesso, come in altri Paesi. Il regime fiscale delle imposte sugli immobili per le persone fisiche è uno dei più generosi della zona dell'OCSE, grazie alla detrazione fiscale degli interessi ipotecari, ma le tasse sulle transazioni possono essere elevate, in particolare per le seconde case. L'equità fiscale è compromessa dalla mancanza di un sistema catastale efficiente.

  • Gli alloggi sociali si caratterizzano per la scarsa offerta (esacerbata dalla costante riduzione della disponibilità causata dal diritto all'acquisto a prezzi nettamente inferiori a quelli di mercato), per la limitata focalizzazione sulle fasce più povere (che implica lunghe liste d'attesa) e per l'annosa mancanza di fondi per le ristrutturazioni. I canoni di locazione sono bassi, talvolta anche estremamente bassi, e scoraggiano il ricambio. I proprietari pubblici sono soggetti a un regime fiscale meno favorevole rispetto a quello delle controparti private. Molte località dispongono di un numero insufficiente di nuovi lotti. Negli ultimi anni il governo ha avviato iniziative per favorire il coinvolgimento di capitali privati nel settore attraverso accordi di programma con i governi regionali e fondi immobiliari chiusi.

In tutti i Paesi dell'OCSE il settore abitativo svolge un ruolo cruciale. I cittadini hanno bisogno di un tetto sulla testa per poter vivere bene e prosperare nelle attività quotidiane legate al lavoro, allo studio, alla socializzazione, e per offrire un riparo dalle intemperie a loro stessi e alle loro famiglie. Tuttavia, i modelli di sviluppo dei patrimoni abitativi e i contesti urbani in cui la maggior parte di questi si trovano variano da un Paese all'altro. Ogni Paese, inoltre, attribuisce i poteri di gestione e regolamentazione del settore - soprattutto per la componente relativa agli alloggi sociali - a diversi livelli di governo, enti governativi e organizzazioni non governative.

In Italia, il modello sociale dell'abitazione di proprietà è da sempre basato sulla famiglia, con un'acquisizione che avviene principalmente per via ereditaria. Diversamente accade nel Nord Europa, dove le abitazioni sono per lo più considerate un bene finanziario da acquistare e scambiare al pari di altri beni, attraverso l'indebitamento a lungo termine sotto forma di mutui, con o senza incentivi fiscali pubblici, o in Paesi come l'Austria, la Danimarca e i Paesi Bassi, dove le disponibilità di alloggi sociali sono ampie. La sostenibilità del modello italiano è retta dal fatto che negli ultimi decenni la popolazione è cresciuta lentamente, con una bassa fertilità più che compensata da un'immigrazione netta che supera in media le 200 000 unità all'anno (cfr. di seguito) e una domanda netta di seconde case da parte di investitori non residenti che copre la differenza. Ciononostante, la situazione è stata sempre più sotto pressione e continuerà a esserlo nei prossimi decenni a causa del prevedibile aumento del fabbisogno di alloggi in affitto, soprattutto da parte dei cittadini che vivono da soli, dovuto alle difficoltà di accessibilità economica.

In ogni caso, l'andamento della domanda di abitazioni è stato a lungo sostenuto dalla riduzione della dimensione media delle famiglie (da 3,4 nel 1971 a 2,4 nel 2011), anche se i giovani continuano a vivere con i genitori molto più a lungo che altrove, spesso ben oltre i 30 anni. Tuttavia, sebbene i prezzi reali delle abitazioni nella maggior parte del Paese si siano mantenuti stabili (cfr. anche Figura 1.12 e Figura 1.13di seguito), l'assenza di un vero e proprio aumento di reddito per la famiglia media almeno dall'inizio del millennio (Figura 1.1) ha fatto sì che, per i meno abbienti, l'accessibilità economica sia stata una sfida costante. Di fatto, il problema è stato amplificato dalla riduzione del numero di unità disponibili sul mercato degli affitti sotto forma di alloggi sociali (sovvenzionati e altri cosiddetti "a prezzi accessibili") a causa della mancanza cronica di risorse di bilancio e di una politica di lunga data che permette la vendita di molte unità sovvenzionate esistenti ai loro occupanti a una piccola parte del loro valore di mercato (cfr. di seguito).

Il presente capitolo si propone di descrivere alcune delle caratteristiche principali del mercato abitativo italiano, inclusa la sua storia più recente, prima e durante la pandemia da COVID-19 (Riquadro  1.1), e di inserirlo in un quadro più ampio comprendente altri Paesi membri dell'OCSE. Particolare attenzione sarà dedicata all'edilizia sociale, oggetto del capitolo successivo, che descriverà cinque progetti locali sul territorio nazionale che hanno aperto la strada e dimostrato come le autorità competenti abbiano lavorato nel rispetto dei vincoli finanziari applicabili per creare un ambiente altamente vivibile per le persone che hanno la fortuna di abitarvi.

Nel 2017 (ultimi dati disponibili) l'Italia contava circa 29-34 milioni di unità abitative a seconda della fonte dei dati (Cassa Depositi e Prestiti, 2018[3]). La stima dell'ISTAT per lo stesso anno era di 31,2 milioni. Un numero elevato di esse era ufficialmente non occupato, superando i 7 milioni nel 2011. L'età media del patrimonio abitativo era di 47 anni, tra i più vecchi dell'OCSE (Figura 1.2), e solo il 13,9% era stato costruito dal 1991 e il 25,9% dal 1981. Gli incentivi a costruire nuove abitazioni sono stati attenuati dall'aumento dei costi legati alla proprietà (manutenzione, tasse, energia, altro), soprattutto a fronte del calo delle valutazioni, che ha portato a un incremento dell'indice di costo annuale dal 2,3 % del 2010 al 3,2 % del 2014.

La forma di occupazione dell'abitazione è senza dubbio la caratteristica principale che descrive il modello abitativo di una nazione. Le modalità principali sono la proprietà (con o senza mutuo) o l'affitto tramite un proprietario privato o pubblico. Per quanto siano in crescita, le cooperative e le associazioni abitative in Italia sono ancora poche. Oltre il 70 % delle famiglie italiane è proprietario dell'abitazione che occupa, con o senza accensione di un mutuo, una percentuale leggermente superiore alla media dell'OCSE (67 %) (Figura 1.3), ma l'indebitamento ipotecario è piuttosto basso se confrontato con il resto del mondo (cfr. di seguito). I fattori che spiegano un tasso di proprietà così elevato comprendono varie distorsioni a livello di politiche (in particolare per quanto riguarda il sistema fiscale; cfr. di seguito)1, il ruolo importante della famiglia e di altri fattori culturali nella produzione/finanziamento e nel trasferimento della proprietà della casa e la mancanza di alternative adeguate nel mercato degli affitti (Poggio and Boreiko, 2017[4]).

Non sorprende che la quota di proprietà sia allineata ai livelli di reddito2 (Figura 1.4). Il tasso di proprietà è più alto tra le persone di età superiore ai 55 anni3, i laureati, i residenti delle regioni settentrionali e quelli delle città più piccole. Tuttavia, il summenzionato scarso ricorso ai mutui ipotecari da parte dei proprietari di case è una caratteristica comune a tutti i gruppi di reddito (in media solo il 10 % di tutte le famiglie ha un mutuo in corso, rispetto a circa il 50-60 % nella maggior parte dei Paesi nordici, ad esempio), sicuramente in parte a causa degli effetti di limitazione dell'offerta dovuti al regime di pignoramento estremamente favorevole nei confronti dei mutuatari (Figura 1.5). È probabile che gli istituti di credito cerchino di tutelarsi applicando ampi margini, rendendo così relativamente più onerosi i costi dei mutui, in rapporto al reddito disponibile, per coloro che hanno un reddito inferiore alla media rispetto alla maggior parte degli altri Paesi, soprattutto per chi si trova nell'ultimo quintile di reddito (quasi il 40 % in media), (OECD, 2021[2]). Il governo riconosce il peso di tassi ipotecari elevati e il Fondo Gasparrini fornisce una garanzia sui rimborsi per chi acquista per la prima volta. Tuttavia, la soluzione ottimale sarebbe probabilmente una revisione del regime dei pignoramenti.

Nondimeno, come in pressoché tutti i Paesi dell'OCSE, i mutui rappresentano la parte principale dell'indebitamento delle famiglie: circa i tre quarti, rispetto ai due terzi circa della media dei Paesi dell'OCSE. Nel complesso, però, l'indebitamento delle famiglie è basso (nel 2020 è stato il più basso tra i Paesi del G7 con un livello del 91 % del reddito disponibile, circa la metà rispetto al Canada, ad esempio), il che riduce i rischi più gravi per la stabilità finanziaria e macroeconomica derivanti da un maggiore accesso ai mutui a seguito dell'emergere, negli ultimi decenni, di innovazioni nei mercati finanziari. Un migliore accesso ai mutui non sarebbe tuttavia una benedizione a tutti gli effetti, in quanto vi sono elementi che indicano che una maggiore offerta contribuisce all'aumento dei prezzi delle abitazioni nelle città italiane, soprattutto nella fase espansiva del ciclo immobiliare (Barone and S. Mocetti, 2020[6]).

Il 14 % circa delle famiglie vive in affitto presso proprietari privati e solo il 2-3 % occupa alloggi sociali (cfr. sotto), con una consistente quota residua che comprende gli occupanti abusivi di unità abitative sfitte, quota che è particolarmente elevata nelle regioni centrali e meridionali del Paese (Cassa Depositi e Prestiti, 2014[7]). Di fatto, la quota di affitti privati si è ridotta nel tempo, dopo aver sfiorato il 20 % a metà degli anni Novanta.

Essere proprietari della propria abitazione comporta una serie di vantaggi sociali, come la stabilità finanziaria attraverso l'accumulo di ricchezza e una maggiore partecipazione alla vita della comunità (Andrews. D. and A. Caldera Sanchez, 2011[8]), Riquadro 1). Esiste tuttavia un evidente rovescio della medaglia, ovvero l'impatto sulla mobilità residenziale. Nelle situazioni in cui il mercato del lavoro locale o un particolare datore di lavoro subiscono uno shock negativo per cui è più conveniente per i cittadini cercare un'occupazione altrove, coloro che possiedono una casa di proprietà (soprattutto se non hanno più un mutuo da pagare) sono sensibilmente più restii a farlo rispetto alle loro controparti in affitto, in particolare a quelle che affittano a prezzi di mercato. Non sorprende quindi che l'Italia si collochi all'interno di un gruppo di una decina di Paesi dell'OCSE con una percentuale di persone che cambiano residenza pari solo a circa il 2 % all'anno, rispetto a un massimo di quasi il 10 % in Australia, ad esempio (Figura 1.6). Tra le politiche che incoraggiano la mobilità residenziale vi sono l'abbassamento delle imposte sulle transazioni, la riduzione delle spese notarili, il miglioramento della reattività dell'offerta abitativa, l'allentamento delle regolamentazioni troppo stringenti in materia di affitti (controllo dei canoni di locazione e regolamentazioni relative a proprietari e inquilini) e l'aumento della spesa sociale per il settore abitativo (sia in contanti che in natura, ossia sussidi per l'alloggio e alloggi sociali) (Causa and J. Pichelmann, 2020[9]).

Una variante di questo argomento è l'impatto dei prezzi reali delle case sulla migrazione interregionale, un fenomeno che interessa l'Italia da tempo, in quanto i cittadini del Sud continuano a trasferirsi al Nord in cerca di lavoro e di una migliore qualità della vita (anche se questi flussi migratori interni sono più ridotti rispetto alla maggior parte degli altri Paesi dell'OCSE, pari solo a circa lo 0,5 % all'anno). Una recente ricerca dell'OCSE, che tiene conto della distanza, dei tassi di proprietà delle abitazioni, dei flussi migratori internazionali e delle differenze di reddito pro capite, di popolazione e di tassi di disoccupazione, ha dimostrato che nel periodo 2010-18 il reddito regionale pro capite e i costi abitativi sono stati fattori determinanti di tali flussi in Italia più che in qualsiasi altro dei 14 Paesi dell'OCSE esaminati; nella maggior parte dei Paesi, compresa l'Italia, i prezzi nella regione di destinazione assumono una rilevanza particolare (Causa and J. Pichelmann, 2020[9]).

L'accessibilità economica è una sfida in tutti i Paesi dell'OCSE, con implicazioni notevoli non solo per il benessere sociale, ma anche per il dinamismo economico e la competitività a livello locale: le famiglie a basso reddito hanno subito una pressione finanziaria sempre maggiore a causa dell'aumento dei costi degli alloggi, malgrado i costi di indebitamento molto bassi. La maggior parte non può permettersi di acquistare una casa e, nei casi in cui può farlo, ha quasi sempre bisogno di un mutuo. Pertanto, la cosiddetta povertà abitativa (misurata dal "tasso di sovraccarico"4: la percentuale della popolazione che si trova nell'ultimo quintile della distribuzione del reddito e che spende almeno il 40 % del proprio reddito disponibile per coprire i costi legati all'abitazione) ha colpito tali proprietari nel 2019 in misura ancora maggiore in Italia (42 %) rispetto alla media dei Paesi dell'OCSE (25 %); la quota italiana era infatti la seconda più alta tra i 32 Paesi di cui si disponeva di dati (dopo il Messico) (Figura 1.7). Tuttavia, tra gli inquilini a basso reddito le percentuali erano abbastanza simili a quelle osservate in altri Paesi (circa un terzo per gli inquilini del mercato privato e il 10-15 % per quelli di alloggi sociali sovvenzionati). Ad ogni modo, i problemi di accessibilità economica sono stati frequentemente denunciati da molti anni a questa parte e non solo tra le fasce più deboli della popolazione (Cassa Depositi e Prestiti, 2014[7]). Essi affondano le loro radici nel periodo successivo ai controlli sui canoni di locazione risalenti al dopoguerra (che hanno raggiunto il massimo grado di rigidità con il regime di "equo canone" instaurato nel 1978), che ha quasi provocato il collasso del settore. La ripresa è stata possibile solo gradualmente con la progressiva liberalizzazione del sistema negli anni '90, che ha permesso all'offerta di risalire, ma al costo di canoni molto più elevati.

Un primo riconoscimento dell'importanza degli aspetti ambientali ed energetici nel settore abitativo è stato espresso nel Piano nazionale di edilizia abitativa del 2009. La preoccupazione principale riguarda il grado di contributo del settore al riscaldamento globale attraverso le emissioni di carbonio prodotte dagli impianti di riscaldamento e condizionamento. Da questo punto di vista l'Italia si è avvicinata alla media dell'OCSE nel 2019 con circa 0,5 tonnellate pro capite. Si tratta di un livello di emissioni pro capite correlate al settore abitativo sostanzialmente superiore a quello di Paesi con condizioni climatiche paragonabili, come il Portogallo o la Spagna (Figura 1.9). Il settore abitativo è stato inoltre la fonte principale delle emissioni di polveri sottili in Italia nel 2017 (ultimi dati disponibili) (Figura 1.10).

Molti Paesi riconoscono la necessità di migliorare l'efficienza energetica del proprio patrimonio abitativo. L'Italia non fa eccezione, ma il raggiungimento di questo obiettivo comporterà notevoli costi finanziari, sia attraverso interventi di ammodernamento o altri incentivi finanziari, sia attraverso l'inasprimento delle norme edilizie. Se l'aumento dei prezzi per coprire i costi che ne derivano è pari a più di mezzo anno di reddito medio disponibile per l'Italia e per la maggior parte dei 27 Paesi dell'OCSE per i quali sono state effettuate simulazioni illustrative per un'abitazione di 100 m2, esso è di gran lunga inferiore al valore di 1,5 anni per la Nuova Zelanda, ad esempio (Cournède and V. Ziemann, 2020[10]). In definitiva per l'Italia il patrimonio abitativo si ridurrebbe di circa l'8 %, in misura leggermente superiore alla media dei Paesi (ottavo posto su 27 Paesi), con un incremento dei prezzi delle case rispetto ai redditi di circa lo 0,6 (prossimo all'effetto mediano tra i Paesi) e un aumento degli investimenti residenziali di quasi il 2 % (terzo posto tra i Paesi) (Figura 1.11). Tali stime sono accompagnate da una notevole incertezza, ma dimostrano che i costi della decarbonizzazione delle abitazioni saranno elevati in Paesi come l'Italia, dove sarà necessario aumentare considerevolmente il tasso di ristrutturazione pesante per portare il patrimonio abitativo in linea con la transizione verso emissioni nette di carbonio pari a zero.

L'Italia ha attuato un innovativo programma di incentivi per le famiglie che intraprendono lavori di ristrutturazione volti a migliorare l'efficienza energetica, a ridurre il rischio sismico e a fornire punti di ricarica per veicoli elettrici, chiamato Superbonus 110 %. Il programma consente la detrazione dall'imposta sul reddito del 110 % dei costi di interventi che comportano un miglioramento di almeno due classi energetiche. Inizialmente istituito dal 1° luglio 2020 fino a fine del 2021, è stato poi prorogato fino al 2023 per le abitazioni monofamiliari e fino alla fine del 2023 (o anche fino alla fine del 2025 con progressiva diminuzione della percentuale di detrazione) per gli edifici plurifamiliari da due a quattro unità. La misura fa seguito a un provvedimento precedente, introdotto nel 2019, meno generoso. Una delle principali sfide che si presentano nelle case plurifamiliari è la difficoltà di trovare un accordo tra le diverse famiglie sui lavori di efficientamento da intraprendere.

Si stima che il programma stia stimolando la crescita del PIL dello 0,7 % e creando oltre 153 mila posti di lavoro (Jones and G. Fonte, 2021[11]), ma con un costo complessivo di 33 miliardi di euro entro il 2036. Molti agenti immobiliari professionali, secondo una recente indagine della Banca d'Italia, ritengono che tale misura abbia anche stimolato la domanda di acquisto di abitazioni. L'estrema generosità del provvedimento ha causato difficoltà di approvvigionamento nel settore delle costruzioni, facendo lievitare i prezzi e i profitti del settore. È stato inoltre rilevato un notevole problema di frodi connesse a questa misura (pari a 4,4 miliardi di euro secondo una stima del direttore dell'Agenzia delle Entrate del febbraio 2022), almeno fino a quando, nel novembre 2021, è stato imposto l'obbligo del "visto di conformità" a scapito di una minore semplicità applicativa. Infine, nel bilancio 2020 il governo aveva attuato un Programma nazionale decennale per il miglioramento della qualità abitativa (PINQuA) da 853 milioni di euro, a cui sono stati aggiunti 2,8 miliardi di euro provenienti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNNR) del 2021, adottato in risposta alla pandemia.

Per diverse ragioni l'offerta di alloggi non ha tenuto il passo con la crescita del reddito reale nella maggior parte dei Paesi dell'OCSE (OECD, 2021[2]),Figura 4): l"elasticità" dell'offerta (una misura della reattività alle variazioni di prezzo) è spesso piuttosto bassa, specialmente nelle aree metropolitane densamente popolate in Europa (Bétin and V. Ziemann, 2019[12]). I dati disponibili, ricavati da stime su scala locale per l'Italia, indicano che l'offerta è particolarmente anelastica, forse solo intorno allo 0,12 (Accetturo and D. Pellegrino, 2020[13]), inferiore rispetto a quella di altri 10 Paesi per i quali sono state recentemente ricavate stime da (Bétin and V. Ziemann, 2019[12]). A livello nazionale (Cavalleri and O. Causa, 2021[14]) hanno collocato l'Italia in un gruppo di otto Paesi su 25 esaminati con elasticità dell'offerta inferiore all'unità. Fra le ragioni di questa debolezza vi sono il ruolo fondamentale del capitale pubblico (come in altri Paesi), combinato agli annosi problemi di bilancio dell'Italia, nonché l'elevata densità della popolazione (soprattutto a causa dei rischi sismici in molte aree), i vincoli normativi e il forte grado di frammentazione del potere decisionale in materia di uso del territorio, che offre a chi è già insediato a livello locale ampie possibilità di opporsi a nuove costruzioni o a ristrutturazioni radicali (cfr. di seguito). In futuro, la penuria di forniture nel settore delle costruzioni causate dai programmi infrastrutturali finanziati dall'UE potrebbe rivelarsi critica.

Naturalmente, essendo le abitazioni un elemento chiave del capitale immobiliare e, per molti, il bene più importante del proprio portafoglio, i loro prezzi sono oggetto di grande interesse. Inoltre, in termini reali (corretti per l'inflazione complessiva dei prezzi di beni e servizi a livello nazionale), gli incrementi di prezzo in Italia sono stati insolitamente modesti, compresi quelli dei canoni di locazione. I dati dell'OCSE relativi agli ultimi due decenni mostrano che l'Italia appartiene a un gruppo di Paesi, tra cui Portogallo, Grecia e Giappone, che hanno registrato un aumento pressoché nullo, mentre l'aumento mediano dei prezzi di vendita reali negli altri Paesi con dati disponibili è stato cumulativamente di circa il 75 % (Figura 1.12). Restringendo il periodo al 2015 in poi, si conferma lo stesso risultato: i prezzi delle case in Italia sono scesi in termini reali (Figura 1.13) e i canoni di locazione hanno ristagnato, sebbene si siano indeboliti nelle principali città nel primo anno della pandemia.

I modesti incrementi dei prezzi nonché la debole reattività dell'offerta e l'aumento del reddito reale hanno fatto sì che dal 1990 l'Italia abbia registrato una crescita piuttosto lenta del numero di unità abitative, con una media di circa l'1 % all'anno (Figura 1.14). Il risultato è stato anche quello di un rapporto prezzo/reddito stabile dal 2000: nel 2020 occorrevano circa nove anni di reddito medio disponibile delle famiglie per pagare un'abitazione media di 100 m2 , quasi esattamente come 20 anni prima, il che implica che, al di là delle preoccupazioni di natura distributiva, l'accessibilità media non è peggiorata ed è ora superiore alla media dei Paesi dell'OCSE (Figura 1.15). Ciò è in contrasto con la maggior parte degli altri Paesi, che hanno registrato un boom dei prezzi delle case e un aumento, in molti casi significativo, di questo rapporto (come il Lussemburgo, dove è passato da 6 a 16, e la Nuova Zelanda, da 10 a 21).

A risentire del mancato aumento del reddito medio non è stato solo il numero di unità abitative, ma anche la qualità delle unità esistenti, un concetto certamente multidimensionale. Il parametro usuale per misurare la qualità delle abitazioni è il tasso di sovraffollamento, comunemente espresso dal numero di stanze per abitante. Nel 2020 la percentuale di famiglie che si ritiene vivessero in condizioni di sovraffollamento era del 19,4 %, il settimo valore più alto fra i Paesi dell'OCSE (11 %), ma ben al di sotto della Lettonia e del Messico, che sfioravano il 40 % (Figura 1.16). Un miglioramento sostanziale, se si considera che la quota corrispondente nel 2012 era superiore al 26 %, la seconda più alta nell'UE dopo la Grecia e di un ordine di grandezza superiore alla media UE di circa il 10 %. Il sovraffollamento è, ovviamente, molto più comune tra gli affittuari che tra i proprietari, e tra gli affittuari è più diffuso tra quelli privati rispetto a quelli con affitti agevolati (Cassa Depositi e Prestiti, 2018[3]).

Il cosiddetto "grave disagio abitativo" combina il sovraffollamento con almeno un'altra condizione, come un tetto che perde o l'assenza di bagno, doccia o servizi igienici interni (FEANTSA and Fondation Abbé Pierre, 2021[16]). Nel 2019 ne era vittima una famiglia italiana su 20 (una su 14 tra quelle a basso reddito), mentre le proporzioni corrispondenti nella media dei Paesi dell'UE erano di una su 26 e di una su 11. Per "abitazioni inadeguate" si intendono quelle che hanno un tetto che perde, pareti/pavimento/fondazioni umide o marciume negli infissi o nei pavimenti. Nel 2019, il 14 % degli italiani (16,4 % dei meno abbienti) viveva in queste condizioni, rispetto al 13,1 % dei residenti nell'UE (20,4 % dei meno abbienti). Infine, alcuni cittadini devono affrontare la povertà energetica, ossia le difficoltà economiche legate al mantenimento di una temperatura interna adeguata. In Italia, nel 2019, anche prima dei recenti rincari dei prezzi energetici, questa percentuale rappresentava l'11,1 % di tutte le famiglie (26,3 % dei più indigenti), un valore nettamente superiore alla media UE del 7,0 % (17,8 %).

La manifestazione più estrema del problema dell'accessibilità abitativa è la mancanza di una fissa dimora. In Italia non sono disponibili raccolte ufficiali di dati sulle persone senza fissa dimora successive a quella di novembre/dicembre 2014 (ISTAT, 2015[17]), realizzata come aggiornamento di una prima ricerca condotta dal 2007 al 2012. Nel follow-up è stata condotta un'indagine tra gli utenti dei servizi di 158 comuni e sono state considerate oltre 50 724 persone senza fissa dimora secondo la definizione ristretta del termine, che include solo quelle che: 1) vivono in strada, 2) vivono in alloggi di emergenza e 3) vivono in alloggi per senzatetto. Si tratta dello 0,08 % della popolazione totale, ma dello 0,24 % della popolazione delle località oggetto di esame.

I confronti tra i vari Paesi continuano a essere difficili, ma se i luoghi presi in esame sono tipici e quindi lo 0,24 % è il dato più reale, allora quest'ultimo risulterà leggermente superiore alla media dei Paesi dell'OCSE, molti dei quali impiegano anche una definizione più ampia del termine, che include altri tipi di situazioni di mancanza di una fissa dimora (OECD, 2021[18]). In ogni caso, il lavoro dell'ISTAT ha evidenziato un lieve aumento rispetto al dato del 2011, pari allo 0,23 % (47 648 in numeri assoluti). Non sorprende che l'86 % delle persone senza fissa dimora fossero uomini, il 58 % stranieri, che la loro età media fosse di 44 anni e che solo un terzo avesse un diploma di scuola superiore. L'aspetto più preoccupante emerso è che la condizione cronica di senza dimora stava diventando sempre più comune: la percentuale di senzatetto da più di due anni era aumentata dal 27 % al 41 %, con il 21 % nell'arco di quattro anni, rispetto al 16 % di tre anni prima.

A parziale compensazione di una crescita lenta del patrimonio abitativo vi è stata un'espansione urbana minore rispetto a quanto si sarebbe verificato altrimenti. Ciononostante, la popolazione si è spostata costantemente da molti centri urbani verso i comuni adiacenti, lasciando dietro di sé un paesaggio urbano degradato. Nel periodo 1992-2015, la quantità di terreni coperti da vegetazione andata persa nelle aree urbane (quasi il 6 %) è stata la settima più alta tra i Paesi dell'OCSE, andando a incidere sulla biodiversità (Figura 1.17). A sostegno di tali argomentazioni vi è il fatto che in Italia i tempi medi di pendolarismo erano tra i più brevi dei Paesi dell'OCSE nel 2013-14, periodo a cui risalgono gli ultimi dati disponibili, facendo registrare 21 minuti al giorno per gli adulti in età lavorativa. Dall'altro lato, un indicatore alquanto arbitrario relativo alla mobilità urbana (la quota di ristoranti nelle vicinanze che possono essere raggiunti in auto in 15 minuti o meno) è risultato scarso in Italia, il sesto peggiore su 24 (Cournède and V. Ziemann, 2020[10]). Il miglioramento delle prestazioni dei trasporti urbani fa calare i prezzi delle abitazioni riducendo i canoni di locazione, attenuando l'incentivo a spostarsi più lontano per motivi di accessibilità economica, per cui se l'Italia si spostasse verso i confini i prezzi diminuirebbero del 25 % (Cournède and V. Ziemann, 2020[10]).

Per quanto riguarda le normative sull'uso del suolo, il governo nazionale non fornisce orientamenti sotto forma di strategie o obiettivi a lungo termine e la maggior parte del potere sull'uso del suolo ricade a livello locale (OECD, 2021[2]). Il lavoro dell'OCSE ha messo in relazione l'elevata frammentazione con la scarsa reattività dell'offerta, in quanto conferisce ai residenti locali un notevole potere sulle decisioni relative all'uso del suolo, consentendo a chi è in carica di bloccare lo sviluppo o il rinnovamento profondo, compresa la densificazione, delle aree richieste. In generale, è stato dimostrato che l'allentamento dei requisiti di zonizzazione (in particolare per quanto riguarda la densità o l'altezza degli edifici) è efficace nell'incrementare l'offerta, riducendo i prezzi delle abitazioni monofamiliari e dei canoni di locazione plurifamiliari nonché migliorando la mobilità geografica, i risultati del mercato del lavoro locale e la crescita (Chiumenti and A. Sood, 2021[19]). È stato riscontrato che i sistemi di pianificazione dell'uso del suolo che conferiscono l'autorità a livello metropolitano piuttosto che a quello distrettuale (o di piccolo comune) facilitano l'adeguamento dell'offerta alla domanda, migliorando l'accessibilità degli alloggi (OECD, 2021[2]).

L'Italia registra anche una situazione in un certo senso insolita per quanto riguarda alcune linee strategiche che incidono sul settore immobiliare. In particolare, impone un regime fiscale sugli immobili residenziali che, a prima vista, è uno dei più generosi tra i Paesi dell'OCSE in termini di aliquota marginale effettiva (METR) (Millar-Powell and A. Thomas, 2022[20]), soprattutto a causa dei consistenti sgravi fiscali sugli interessi ipotecari (Figura 1.18). Tra i Paesi dell'OCSE solo Paesi Bassi, Danimarca e Svezia sono risultati più generosi nel 2016, l'ultimo anno in cui è stato calcolato l'indicatore tra i Paesi dell'OCSE (anche se da allora i Paesi Bassi hanno gradualmente ridotto i loro incentivi fiscali). È stato dimostrato che questa impostazione aumenta i prezzi di equilibrio delle case e quindi i livelli dei canoni di locazione a lungo termine, ma i calcoli dell'OCSE mostrano che l'eliminazione di questa disposizione in Italia comporterebbe solo effetti marginali al ribasso nel rapporto prezzo/reddito (OECD, 2021[2]). Le distorsioni sono sostanziali perché l'incentivo non si applica ai proprietari-occupanti senza mutuo (ma anche in questo caso l'Italia offre un'aliquota marginale effettiva relativamente bassa), né alle abitazioni costruite ai fini di una locazione (che vanno incontro a un'aliquota marginale effettiva di circa il 50 %). Il divario nelle aliquote marginali effettive tra i proprietari-occupanti finanziati dal debito e gli affittuari – una misura della distorsione – è di 73,6 punti percentuali, il più alto tra tutti i Paesi dell'OCSE (Millar-Powell and A. Thomas, 2022[20]), Figure 7 e 8). Il divario è leggermente inferiore per i proprietari-occupanti finanziati con capitale proprio e gli affittuari (circa 45 punti percentuali), ma è comunque un dato superato solo da Australia, Irlanda e Lussemburgo.

Tra gli altri aspetti insoliti del sistema di tassazione italiano sulle abitazioni5 figura il fatto che l'imposta ricorrente sugli immobili (IMU) si applica solo alle abitazioni classificate come case di lusso6 (Millar-Powell and A. Thomas, 2022[20])., Tabella A.1)7 e che non si applica l'imposta sul reddito delle persone fisiche alle plusvalenze sulle abitazioni primarie occupate dai proprietari (diverse dalle case di lusso), mentre gli immobili in affitto sono soggetti a tale imposta se posseduti da meno di cinque anni. Il reddito da locazione può essere incluso nel reddito ordinario con l'adeguata imposta progressiva sul reddito delle persone fisiche con le relative detrazioni consentite oppure può essere soggetto a un cosiddetto regime facoltativo di "cedolare secca", con un'aliquota fissa del 21 % ma senza detrazioni. Questa aliquota è ridotta al 10 % (dal 2014) per gli affitti in aree caratterizzate da carenza di alloggi (essenzialmente tutte le grandi città). Le imposte ricorrenti sulla proprietà sono riscosse sia a livello nazionale che locale; cumulativamente, rappresentano circa l'1,3 % del PIL, rispetto al valore mediano dei Paesi dell'OCSE di circa lo 0,8 % (Figura 1.19).

Tra le altre imposte relative agli alloggi figurano le quattro imposte sulle transazioni: le prime due sono l'imposta di registro e l'imposta catastale, che variano tra lo 0,5 % e il 3 % ciascuna (anche se per alcune transazioni le imposte possono essere solo di 50-200 euro ciascuna); una terza imposta, l'imposta di bollo, è generalmente pari al 2 % (con un minimo di 1 000 euro), tranne se si tratta di una residenza non primaria, per la quale invece ammonta al 9 %; è comunque solo un importo forfettario di 200 euro se il venditore è un soggetto titolare di partita IVA (cioè se l'immobile è di nuova costruzione) e ci sono aliquote più elevate per le case di lusso. Infine, è dovuta anche l'IVA con aliquote che variano da zero se si acquista da un venditore non titolare di partita IVA (ossia una società) o dopo più di 5 anni dalla costruzione, al 4 % per le residenze primarie, al 10 % per le seconde case e al 22 % per le case signorili e di lusso.

Un problema generale nell'imporre un sistema adeguato di imposte ricorrenti sugli immobili e sulle plusvalenze in Italia è la mancanza di uno strumento di valutazione affidabile. Nel 2022 il governo ha posto in essere un nuovo sistema catastale, promettendo di valutare correttamente le proprietà - ma non di tassarle. Nondimeno, anche con questo primo passo, comprendendo almeno i valori immobiliari, diventa possibile illustrare meglio il loro impatto sulla distribuzione della ricchezza e come si potrebbe intervenire sulle aliquote fiscali per generare maggiori entrate per l'edilizia sociale e altri servizi pubblici locali nonché per mitigare le potenziali ripercussioni su quei proprietari a basso reddito che non possono permettersi di pagare di più.

Un quadro normativo permette alle autorità italiane di mettere in atto strumenti per affrontare i rischi sistemici che potrebbero derivare dal mercato immobiliare. La Banca d'Italia può imporre una serie di restrizioni sui nuovi prestiti, tra cui la limitazione degli importi dei mutui rispetto al valore della casa o al reddito del mutuatario, la limitazione dei pagamenti del servizio del debito a una percentuale massima del reddito, la limitazione delle scadenze dei nuovi prestiti e la richiesta di importi minimi di ammortamento. Oltre alle banche, la Banca d'Italia può applicare misure basate sui mutuatari anche ad altri intermediari finanziari che, al pari delle banche, concedono prestiti in qualsiasi forma al pubblico. A inizio del 2023, le autorità macroprudenziali non applicavano linee strategiche restrittive, valutando i rischi del settore immobiliare residenziale italiano come limitati. In effetti, le recenti valutazioni condotte dal Comitato europeo per il rischio sistemico (CERS) e dalla Banca centrale europea (BCE) hanno dimostrato che l'Italia presenta rischi limitati derivanti dal settore immobiliare residenziale e che non è necessario introdurre misure destinate ai mutuatari (CERS, 2022; (Lang and C. Schwarz, 2020[21]).

Infine, l'Italia presenta una situazione piuttosto insolita in relazione alla scarsità degli investimenti pubblici diretti nell'edilizia abitativa: solo poco più dello 0,2 % del PIL nel 2020, dopo forti cali registrati negli ultimi decenni che hanno coinciso con lo spostamento di responsabilità (ma non di risorse) dallo Stato alle regioni e ai comuni (Figura 1.20). La spesa pubblica italiana per le indennità di alloggio è ancora nettamente inferiore rispetto a quella registrata dalla maggior parte dei Paesi dell'OCSE (Figura 1.21). Tale divario è rimasto abbastanza costante dal 2000 (anno in cui i dati sono stati resi disponibili).

Considerati i diffusi problemi di accessibilità degli alloggi in tutti i Paesi dell'OCSE, una misura politica ovvia che può fornire una soluzione parziale8 (senza lo svantaggio di incorporare le indennità di alloggio9 nei prezzi degli alloggi) è quella di costruire più alloggi sociali. Tuttavia, come nel caso degli alloggi di proprietà, questa soluzione presenta gravi effetti di vincolamento (il cosiddetto "effetto lock-in") sulla mobilità lavorativa, a meno che non sia abbinata a un'ammissibilità effettivamente trasferibile. In Italia il modello principale di edilizia sociale è quello di sovvenzionare le locazioni10; altri Paesi europei impiegano modelli diversi (Riquadro 1.2). Secondo Housing Europe, nel 2020 le unità abitative sovvenzionate in Italia rappresentavano solo il 2,4 % del patrimonio edilizio totale11, in calo rispetto al 3,8 % del 2011. Ciò collocherebbe l'Italia nella decima posizione più bassa tra i 31 Paesi dell'OCSE che dispongono di unità abitative di questo tipo: nell'OCSE la percentuale media di unità abitative sociali è di circa il 7 %, con oltre il 20 % rilevato in Austria, Danimarca e Paesi Bassi (Figura 1.22). Il calo registrato negli ultimi anni è stato piuttosto comune a tutti i Paesi dell'OCSE essendo stato osservato in tutti tranne che in sei. Prima della pandemia in Italia si costruivano pochissime nuove unità abitative (solo circa 1 100-1 200 unità all'anno in termini netti) e anche le unità esistenti venivano ristrutturate o riqualificate in misura relativamente ridotta (Housing Europe, 2021[1]). La pandemia ha ridotto le nuove costruzioni di circa il 10 % rispetto ai livelli previsti e le ristrutturazioni di circa il 20 %.

Tuttavia, molti Paesi hanno intrapreso importanti progetti di ristrutturazione e rivitalizzazione per colmare le lacune in termini qualitativi rispetto alle unità private in affitto e mitigare i rischi per la salute e la sicurezza, soprattutto dopo la pandemia da COVID-19. Un esempio è il Green Deal europeo del gennaio 2020 per migliorare l'efficienza energetica del patrimonio edilizio e il pacchetto per la ripresa di luglio 2020, che prevedeva uno stanziamento del 30 % per i progetti verdi, con dettagli da definire nei singoli Stati membri dell'UE. Nel caso dell'Italia, il Piano Nazionale di Ripresa prevede 2 miliardi di euro per finanziare la riqualificazione energetica degli alloggi sociali, che dovrebbero essere sufficienti a coprire circa un quinto del patrimonio totale (Housing Europe, 2021[1])12. I dati sulla qualità del patrimonio di edilizia sociale in Italia e nei vari Paesi sono scarsi, anche se si parla di 33 000 unità ristrutturate in Italia nel 2016. Ciononostante, si parla molto di problemi di umidità, muffa, correnti d'aria e scarso isolamento, rumore e carenze in materia di sicurezza. Le costanti limitazioni dei finanziamenti hanno portato a una mancanza di manutenzione e di riparazioni, con il risultato che le unità non sono più utilizzabili.

Una decisione politica chiave associata all'offerta di alloggi sociali riguarda le modalità di assegnazione del numero limitato di unità. L'assegnazione può essere relativamente universalista o più mirata. Quest'ultima presenta evidenti vantaggi in presenza di un patrimonio scarso, ma è in conflitto con l'auspicio di raggiungere la mescolanza sociale13: il timore di creare ghetti ha portato alcuni Paesi (come Francia e Germania) a fissare tetti di reddito [che si applicano nel 79 % dei Paesi esaminati da Phillips (Phillips, 2020[23])] a livelli piuttosto elevati. Vengono comunemente utilizzati diversi criteri di ammissibilità: il reddito familiare, lo stato di cittadinanza [impiegato dal 69 % dei Paesi del campione di Phillips (2020)], la situazione abitativa attuale, la composizione e le dimensioni del nucleo familiare (35 %). La priorità viene spesso attribuita alle famiglie con un componente disabile (84 %), alle condizioni abitative attuali della famiglia, alla presenza di un anziano in famiglia (61 %), alla durata della permanenza in lista d'attesa (54 %) e alle persone con un reddito basso (52 %).

L'Italia ha un sistema a punti con priorità basate su molti fattori, in particolare sulle attuali condizioni abitative del nucleo familiare e sul numero di figli a carico, ma include un limite di reddito e preferenze a livello di nazionalità. L'assenza di un sistema di assegnazione mirato e le iniquità che esso comporta sono da tempo oggetto di controversia: nel 2007, ad esempio, è emerso che in un segmento dell'edilizia sociale circa il 14 % di tutti gli inquilini guadagnava più di 41 000 euro all'anno, escludendo l'8 % che si è rifiutato di dichiarare il proprio reddito (Breca and Liguori, 2007[24]). Fortunatamente, l'Italia si è mossa nel tempo verso una maggiore assegnazione mirata: la percentuale di famiglie a basso reddito in tutti gli alloggi sociali è cresciuta nel tempo passando dal 43,7 % del 1995 al 57,9 % del 2014. Rimane comunque una percentuale piuttosto bassa, anche se attenua il problema delle morosità per i locatori pubblici (Poggio and Boreiko, 2017[4]).

Una volta selezionati gli occupanti, la questione successiva da decidere è l'importo del canone. In linea di principio, può basarsi sui canoni di mercato, sui costi, sul reddito familiare, sulle caratteristiche dell'abitazione o sulle caratteristiche degli occupanti e può essere soggetto o meno a massimali. L'Italia utilizza tutti questi fattori, tranne i costi dei fornitori. Esiste anche una tariffa base soggettiva, che è una percentuale della tariffa base e varia tra i comuni in base alla situazione socio-economica del nucleo familiare. Non esistono dati che coprano l'intero Paese, ma Breca e Liguori (2007) affermano che alcune persone pagavano appena 10 euro al mese e due terzi pagavano meno di 100 euro al mese. La media a Roma era di 100 euro/mese nel 2016. I dati di Milano indicano una media di 123 euro al mese nel 2019. In alcuni Paesi (Francia, Slovacchia e Nuova Zelanda) vengono condotte revisioni periodiche dell'idoneità; in Italia gli inquilini possono essere sottoposti a revisioni dell'affitto e dell'idoneità, il più delle volte in base al reddito e alla residenza, ma le regole per tali revisioni sono stabilite a livello locale e non esistono dati nazionali sulla loro diffusione. Un'alternativa è quella di offrire solo contratti di locazione a tempo determinato (come in Inghilterra), ma questo comporta una notevole incertezza e instabilità. Come i Paesi Bassi, anche l'Italia impone aumenti dell'affitto allineati al reddito degli occupanti, ma, se si supera il tetto di reddito applicabile a livello locale, il contratto di locazione viene risolto. Tuttavia, tutte queste opzioni sono difficili da attuare e talvolta inefficaci.

Una caratteristica del sistema italiano è che, inizialmente a partire dagli anni Cinquanta, ma più recentemente con la Legge 560 del 1993, gli inquilini degli alloggi sociali hanno il diritto di acquistare la propria abitazione a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato dopo cinque anni di pagamento del canone di affitto. La proprietà è spesso incentivata, nonostante il già citato scoraggiamento della mobilità del lavoro, sulla base del fatto che prove abbastanza scarse, per lo più vecchie e basate sugli Stati Uniti, indicano che i proprietari sono più coinvolti nei processi sociali e politici, sono meno impegnati in attività criminali e istruiscono in misura maggiore i loro figli. L'ultima grande ondata di privatizzazioni risale al 1993, quando fu privatizzato circa un quinto del patrimonio. Ma la privatizzazione è in corso (nel 2016 sono stati venduti circa 2 700 alloggi, a fronte di 6 300 nuove costruzioni), nonostante una lista d'attesa nazionale di circa 650 000 nuclei familiari14 (circa l'85 % del patrimonio esistente) (Poggio and Boreiko, 2017[4]). Di conseguenza, si assiste a un ritiro periodico del patrimonio che è in contrasto con le considerazioni di equità, poiché la generale mancanza di offerta fa sì che molte famiglie a basso reddito non ottengano mai un contratto di locazione. Per il resto, per i progetti di edilizia sociale sono consentite varie deroghe agli strumenti di pianificazione urbanistica e alle norme di finanziamento (Cassa Depositi e Prestiti, 2014[7])15.

Nei vari Paesi l'offerta è a volte del governo (nazionale e decentrato16), di società a scopo di lucro, enti non-profit o a scopo di lucro limitato e cooperative. In media, i governi decentrati sono i maggiori fornitori in tutta l'OCSE in quanto possiedono circa la metà del patrimonio pertinente. Anche se negli ultimi decenni la responsabilità per l'edilizia sociale in Italia è stata sostanzialmente devoluta17, l'offerta rimane piuttosto centralizzata: circa il 72 % del patrimonio è di proprietà di autorità nazionali e agenzie pubbliche (cfr. Figura 1.8). Un indicatore ideato da Phillips (2020) colloca l'Italia al settimo posto in una classifica relativa alla centralizzazione tra i Paesi dell'OCSE nel 2019 (Figura 1.23). Per mantenere i fondi nel sistema, diversi Paesi hanno utilizzato "fondi di rotazione", che reinvestono i proventi degli affitti in progetti futuri (OECD, 2020[25]), Riquadro 2.1). A causa della mancanza di finanziamenti pubblici permanenti, i politici italiani si sono adoperati per cercare di coinvolgere maggiormente i capitali privati nella costruzione di alloggi a prezzi accessibili sotto forma di partenariati pubblico-privato.

Questi interventi hanno assunto due forme. In primo luogo, sono stati stipulati accordi di programma tra lo Stato e le regioni per un certo numero di alloggi, tra cui sia alloggi senza restrizioni che unità in locazione permanente. Nel 2011-12, ad esempio, lo Stato ha fatto leva su 378 milioni di euro di fondi propri per creare circa 17 000 unità abitative (di cui l'80 % di nuova costruzione) per un costo totale di circa 3 miliardi di euro, facendo ricorso a capitali privati e a fondi pubblici aggiuntivi da parte dei governi regionali e di altri enti pubblici.

Un secondo approccio ha assunto la forma di fondi immobiliari chiusi, che hanno iniziato a esistere giuridicamente nel Piano Nazionale di Edilizia Abitativa del 16 luglio 2009 e sono stati attuati nel 2011 per 35 anni con 140 milioni di euro di capitale di avviamento dello Stato, in combinazione con un miliardo di euro della Cassa Depositi e Prestiti e 888 milioni di euro di investitori privati. A marzo 2016, 32 fondi locali gestiti da nove società di gestione patrimoniale erano coinvolti in 255 progetti per la costruzione di 20 000 unità abitative sociali e 8 500 posti letto per studenti, principalmente nel nord del Paese; 84 erano stati completati e gli altri 27 lo erano quasi18.

La Lombardia è considerata un esempio di migliore prassi in termini di capacità di combinare partenariati pubblico-privato volti a promuovere l'innovazione sociale nelle iniziative di previdenza ed edilizia sociale (Costarelli et al., 2019). Ad esempio, il Fondo Immobiliare di Lombardia (FIL) vanta un patrimonio di circa 500 milioni di euro in 23 complessi distinti che comprendono circa 6 000 appartamenti e 1 900 posti letto per studenti, oltre a 21 000 metri quadrati di spazi commerciali. Un attore chiave è la Fondazione Housing Sociale (FHS), istituita nel 2004 in Lombardia, che fornisce consulenza al sistema dei fondi e promuove il settore dell'edilizia sociale cercando di massimizzare la percentuale di alloggi a canone moderato, convenzionale o sociale.

Oltre alla semplice mancanza di fondi pubblici, alle continue privatizzazioni a prezzi stracciati e al diffuso problema dell'abusivismo, altre sfide importanti per la sostenibilità dell'edilizia sociale sono rappresentate dal relativo sistema fiscale, meno vantaggioso rispetto a quello applicato ai proprietari privati, nonché dalla mancanza di lotti per le nuove costruzioni, in quanto le autorità locali spesso temono di incoraggiare le persone a basso reddito a trasferirsi, anche se i terreni destinati all'edilizia sociale possono essere sovvenzionati nell'ambito del Piano di edilizia economica e popolare (PEEP).

Nel decennio che si concluderà nel 2024, le previsioni ufficiali sulla struttura della domanda di nuove abitazioni indicano che la maggior parte (57 %) proviene da famiglie con un reddito medio (18 000-47 000 euro all'anno), il 23 % da famiglie meno abbienti e il 20 % da famiglie con redditi più elevati. L'Istituto nazionale di statistica, l'ISTAT, ha recentemente pubblicato le sue più recenti prospettive demografiche a lungo termine. Si prevede che la popolazione italiana si ridurrà da 59,6 milioni all'inizio del 2020 a 58,0 milioni nel 2030, 54,1 milioni nel 2050 e 47,6 milioni nel 2070, con un calo cumulativo di oltre il 20 % in mezzo secolo, nonostante una migrazione netta media di circa 140 mila unità (0,2 %) l'anno. Prospettive simili sono fornite anche dalle Nazioni Unite, ma Eurostat è più ottimista, soprattutto per quanto riguarda il saldo migratorio netto. Il calo demografico si verifica nonostante la previsione di una ripresa del tasso di fertilità totale da circa 1,27 a 1,51 entro il 2050 – ciononostante le coppie senza figli supereranno quelle con figli entro la metà degli anni 2040 – e malgrado un ulteriore aumento dell'aspettativa di vita alla nascita di circa tre anni. Più della metà di questo spopolamento si verificherà nel sud del Paese, che subirà una riduzione cumulativa di quasi un terzo. Si prevede che la maggior parte dei comuni subirà una riduzione delle dimensioni, soprattutto quelli più rurali. Il calo demografico sarà leggermente più contenuto tra le persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni, ma il processo di invecchiamento continuerà e l'età media salirà da 45,7 a 50,7 anni nel 2050, dopodiché dovrebbe stabilizzarsi.

Tuttavia, si prevede che il numero di nuclei familiari aumenterà nel periodo fino al 2040 a causa di un aumento del numero di persone che vivono da sole. Lo scenario si basa su una migrazione netta costantemente positiva, poiché si prevede che sia l'immigrazione che l'emigrazione diminuiscano verso la fine degli anni 2020, ma che il livello della prima rimanga più elevato. Si prevede che nel decennio in corso la migrazione interna interesserà oltre 13 milioni di persone, un quarto delle quali si muoverà a livello interregionale.

Secondo l'OCSE, la combinazione di questi dati demografici deboli e la previsione di un lento aumento del reddito reale (OECD, 2021[2]) Capitolo 4) comporta la terza crescita più debole del patrimonio edilizio tra i Paesi dell'OCSE (dopo Giappone e Germania), la terza variazione più debole dei prezzi reali delle abitazioni (dopo Giappone e Lettonia) e la settima variazione più debole del rapporto tra prezzi e reddito. Complessivamente, anche prima dell'attuale crisi ucraina, il ritmo di costruzione di nuovi alloggi era fissato a sole 120 mila unità all'anno nel decennio in corso, a fronte di una formazione media annua netta di circa 170 mila nuclei familiari. Si prevede che questo porterà a una certa rivalutazione dei prezzi nonché a un rapido aumento delle domande di alloggi sociali, che negli ultimi anni hanno già fatto registrare lunghe liste d'attesa (vedi sopra) (Housing Europe, 2021[1]).

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Note

← 1. Recenti ricerche empiriche relative ai Paesi del G7 hanno confermato che le politiche di governo concorrono alla determinazione dei tassi di proprietà delle abitazioni (Malinskaya and K. A. Kholodilin, 2022[22]). In linea generale, lo studio mostra gli effetti significativi di età, reddito, dimensioni del nucleo familiare, razza, prezzi/accessibilità, disponibilità di mutui, urbanizzazione, tassi di interesse, inflazione, fattori fiscali e una variabile proxy della propensione del Paese a fornire aiuti pubblici. Gli autori citano inoltre una buona parte della letteratura che dimostra che la presenza di misure di controllo sui canoni di locazione porta a tassi di proprietà più elevati, in quanto riduce l'offerta di alloggi in affitto. Un precedente studio di Andrews e Caldera Sanchez (2011) aveva già evidenziato una serie di fattori causali analoghi, insieme allo status di immigrati (in Svizzera, Lussemburgo e Danimarca gli immigrati avevano tassi di proprietà più bassi), al livello di istruzione terziaria, alla struttura del nucleo familiare (la proprietà era molto più elevata per le coppie senza persone a carico rispetto a quelle con persone a carico e ai single) e alla portata dell'obbligo di pagamento di un acconto, soprattutto nei casi in cui non vengono offerti sgravi fiscali sugli interessi dei mutui, e alla regolamentazione del mercato degli affitti.

← 2. Secondo Cassa Depositi e Prestiti (Cassa Depositi e Prestiti, 2014[7]), questa quota varia dal 34,7 % per il quintile di reddito più povero al 91,3 % per quello più abbiente. La quota di proprietari di case nel quintile di reddito più basso è diminuita drasticamente dopo il 2000 - quando era pari al 51,7 % - a favore sia degli affitti privati che degli alloggi sociali (Poggio and Boreiko, 2017[4]). (Andrews and Caldera Sánchez, 2011[27]) hanno tuttavia rilevato che l'elasticità dei tassi di proprietà rispetto al reddito familiare in Italia è relativamente bassa. Piuttosto, la proprietà dell'abitazione appare, in confronto, marcatamente influenzata dalla riduzione delle dimensioni del nucleo familiare e dal cambiamento nella sua struttura, in particolare dall'aumento del numero di nuclei familiari composti da una sola persona, in parte legato all'incremento tendenziale delle separazioni e soprattutto dei divorzi.

← 3. Secondo Andrews e Caldera Sanchez (2011), dal 1995 al 2004 i tassi di proprietà degli italiani sono aumentati per tutte le fasce di età superiori ai 55 anni, per tutti i gruppi di reddito, ma soprattutto per il quintile inferiore.

← 4. Alcuni osservatori si riferiscono al tasso di sovraccarico estremo utilizzando un valore soglia del 60 % (FEANTSA and Fondation Abbé Pierre, 2021[16]). In base a questa misura, nel 2019 l'Italia si trovava al sesto posto nell'Unione europea, con il 24 % soggetto a tale soglia, ben dietro alla Grecia con il 68 %.

← 5. Ogni comune stabilisce l'aliquota fiscale (entro le linee guida stabilite dal governo centrale dello 0-0,6 %). L'aliquota si applica al valore catastale, ma viene adeguata in base al tipo di immobile. Esistono anche altri vantaggi fiscali (riduzione delle imposte sulla proprietà, dell'IVA o dell'imposta di registro sul prezzo dell'immobile) quando si acquista un immobile come residenza primaria.

← 6. Tali abitazioni comprendono case signorili, ville, castelli e palazzi. Tuttavia, la classificazione del lusso non si allinea bene con i valori di mercato degli immobili, con conseguente mancanza di progressività e di equità orizzontale.

← 7. Le abitazioni primarie non di lusso non sono soggette a IMU. Sono soggette a IMU anche tutte le abitazioni non primarie, anche se è prevista una leggera riduzione dell'aliquota se affittate in regime di canone calmierato.

← 8. La costruzione di più alloggi sociali non può risolvere tutti i problemi delle famiglie in condizioni di grande precarietà, ma secondo l'approccio housing first ("l'alloggio prima di tutto") sembra essere il punto di partenza giusto. Tali fondi sono stati erogati per la prima volta (dall'Unione europea) nel 2016.

← 9. L'Italia ha introdotto per la prima volta un programma nazionale di indennità di alloggio nel 1998, con un esborso totale di circa 300 milioni di euro nei primi anni 2000, ma è stato temporaneamente eliminato in seguito alla crisi dell'euro per poi essere riavviato solo intorno al 2014 con una copertura e una disponibilità limitate. Tuttavia, nel 2013-2015 lo Stato ha concesso pagamenti una tantum fino a 8 000 euro per aiutare le famiglie a saldare il debito.

← 10. L'edilizia sociale italiana si articola in tre segmenti: il più grande è l'edilizia sociale pubblica tradizionale a canoni molto bassi, chiamata Edilizia Residenziale Pubblica (ERP); poi c'è l'Housing Sociale, finanziato da fondi integrati, che mirano a servire più nuclei familiari a reddito medio con una combinazione di finanziamenti pubblici e privati e sussidi del 20-60 %, chiamato SIF (Sistema Integrato di Fondi) (vedi sotto), presente soprattutto nelle grandi aree metropolitane del centro e del nord del Paese; e infine esiste un settore emergente del non-profit (fondazioni, cooperative e imprese sociali), soprattutto al nord e pensato per affrontare, per esempio, i problemi specifici degli immigrati (Poggio and Boreiko, 2017[4]). Il capitolo seguente si concentra su quest'ultima categoria. Taluni hanno criticato la mancanza di coordinamento tra le diverse forme, che si traduce in un'assenza di mescolanza sociale.

← 11. La maggior parte dei fornitori di alloggi sociali fa parte di Federcasa, i cui 74 enti associati gestiscono circa 850 mila unità con 2,2 milioni di occupanti, impiegando circa 7 000 lavoratori dipendenti.

← 12. Questo fa seguito alla precedente intenzione di riqualificare 12 000 unità abitative nell'ambito del piano di edilizia abitativa da 1,8 miliardi di euro del 2014.

← 13. La mescolanza sociale per contrastare la segregazione socio-spaziale non è molto discussa nel contesto italiano. Tuttavia, è raggiunta indirettamente dalla legge sul diritto di acquisto e più direttamente dal sistema di partenariato pubblico-privato discusso in precedenza (Costarelli, Kleinhans and S. Mugnano, 2019[26]). Alcuni progetti di punta hanno cercato di ottenere questo risultato anche richiedendo agli inquilini di impegnarsi in un minimo di attività di costruzione della comunità in cambio di affitti più bassi.

← 14. Queste liste d'attesa sono compilate dalle autorità locali. A Roma si stima che siano interessati 13 000 nuclei familiari.

← 15. L'Italia ha anche un certo numero di contratti a canone concordato, come specificato dalla legge n. 431 del 1998. Si tratta di affitti nel settore privato a prezzi leggermente inferiori rispetto a quelli di mercato in cambio di incentivi fiscali sia per i proprietari che per gli inquilini. Sebbene la loro diffusione vari da una provincia all'altra, si ritiene che siano piuttosto numerosi.

← 16. Le amministrazioni regionali e comunali in Italia agiscono per lo più attraverso le loro Aziende Territoriali per l'Edilizia Residenziale (ATER).

← 17. La legge del 31 marzo 1998 ha trasferito le competenze in materia di alloggi alle regioni, ma questo aspetto è stato parzialmente ribaltato dalla legge dell'8 febbraio 2007 e dalle implicazioni di un'importante sentenza del 21 marzo dello stesso anno.

← 18. Un altro fondo è stato lanciato nel febbraio 2017 con 100 milioni di euro di finanziamenti statali con l'obiettivo di un miliardo di euro di capitale totale da investire in alloggi, infrastrutture intelligenti e rinnovamento urbano in 14 aree metropolitane.

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