2. Valutazioni dello stato di disabilità e valutazioni dei bisogni in Italia

Questo capitolo analizza le numerose procedure di valutazione della disabilità attualmente in vigore in Italia e nelle sue regioni. Una legislazione obsoleta ostacola la capacità dell’Italia di riconoscere la capacità funzionale delle persone con disabilità, di fornire un supporto adeguato e di sviluppare politiche inclusive in settori come la protezione sociale, l’occupazione, l’istruzione e la sanità. In assenza di una legislazione nazionale di riferimento aggiornata, le regioni hanno adottato i propri approcci, il che contribuisce ulteriormente alle ampie disparità nel Paese per quanto riguarda il numero di persone che ricevono e sono identificate come bisognose di supporto. Il capitolo si concentra su quattro regioni (Regione Campania, Regione Lombardia, Regione Autonoma della Sardegna (anche indicata con Sardegna) e Provincia Autonoma di Trento (anche indicata con Trentino)), che riflettono le ampie variazioni geografiche e di governance in Italia.

Negli ultimi 15 anni, la valutazione dello stato di disabilità di una persona in tutto il mondo è stata sempre più modellata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD, dall’inglese Convention on the Rights of Persons with Disabilities), adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2006 e ratificata dall’Italia nel 2009.1 La Convenzione definisce le persone con disabilità come “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”. Una caratteristica chiave di questa caratterizzazione della disabilità è la distinzione che fa tra le persone con menomazioni (cioè problemi a livello fisico) e le barriere che le persone affrontano nell’interazione con il proprio ambiente (cioè problemi nello svolgimento di attività dovuti a patologie sottostanti), e l’enfasi che pone su queste ultime come causa della disabilità. Tuttavia, questa forte enfasi sull’esperienza reale della disabilità non si riflette ancora pienamente nelle pratiche di valutazione della disabilità di molti Paesi OCSE. Le preoccupazioni per la mancanza di attenzione ai fattori ambientali e la forte concentrazione sulle menomazioni individuali sono state ripetutamente espresse dal Comitato delle Nazioni Unite Unite sui diritti delle persone con disabilità nelle sue valutazioni degli Stati Parte (United Nations, 2011[1]). Questo è solitamente il caso delle pratiche di valutazione dello stato basate su criteri medici, che tendono ad adottare un approccio individualizzato e a de-contestualizzare la disabilità.

Un motore parallelo del cambiamento nelle politiche e nella prassi di valutazione della disabilità negli ultimi anni è stata la proliferazione della Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF, dall’inglese International Classification of Functioning, Disability and Health), uno strumento di classificazione epidemiologica sviluppato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che riflette uno spostamento al di là degli elementi di menomazione fisica verso le limitazioni di attività e le restrizioni di partecipazione che riflettono l’interazione tra la menomazione di una persona e il suo ambiente. L’ICF distingue tra capacità intrinseca, che riflette la capacità prevista di una persona di svolgere attività in base al suo stato di salute e alle sue menomazioni, e performance, che riflette l’effettivo svolgimento delle attività nell’ambiente reale in cui la persona vive.2 Le informazioni sulla capacità sono in genere il risultato di un ragionamento clinico o di un giudizio basato su dati clinici, mentre le performance sono una descrizione reale di ciò che accade effettivamente nella vita di una persona. Sulla base del intendimento ‘bio-psico-sociale’ o interazionale della disabilità, la valutazione dovrebbe adottare quest’ultima prospettiva di performance. Per raccogliere informazioni sulle prestazioni delle persone e misurare la disabilità come intesa dall’ICF, l’OMS ha sviluppato e ampiamente testato empiricamente una Scheda per la valutazione della disabilità, nota a livello internazionale con l’acronimo WHODAS, dall’inglese WHO Disability Assessment Schedule. Si tratta di una serie di domande nei sei domini di base dell’ICF (attività cognitive, mobilità, cura di sé, interagire con le persone, attività della vita quotidiana, partecipazione) che consentono di rilevare lo svolgimento di attività da parte di una persona nella sua vita quotidiana e nell’ambiente attuale. Allineandosi all’ICF e alla visione della CPRD, WHODAS ha un ruolo da svolgere nella modernizzazione delle pratiche di valutazione della disabilità, necessaria in diversi Paesi per riflettere meglio l’interazione persona-ambiente.

La valutazione dello stato di disabilità in Italia oggi, in particolare la valutazione dell’invalidità civile, non riflette ancora la caratterizzazione della disabilità utilizzata nella CRPD e riflessa nell’ICF. Inoltre, il sistema in Italia è complesso e frammentato. La frammentazione della valutazione della disabilità in Italia è in parte spiegata dall’evoluzione storica dei vari atti legislativi che hanno posto le basi per tale valutazione. La conoscenza di base di queste leggi e delle istituzioni che le applicano è un requisito per comprendere meglio i diversi status di disabilità che possono essere attribuiti alle persone con disabilità, così come le corrispondenti procedure di valutazione che coesistono e talvolta si sovrappongono (vedere sotto). La frammentazione delle valutazioni dello stato di disabilità in Italia crea un sistema inefficiente, in cui è difficile orientarsi e che non riesce a garantire l’uguaglianza tra le persone e le regioni.

Il quadro giuridico nazionale sulla disabilità è ancorato alla Costituzione italiana (1948). Tuttavia, anche la Legge 118/1971, che stabilisce il concetto di invalidità civile, costituisce un pilastro. Le persone con invalidità civile sono quelle che, a causa di un disturbo fisico o mentale, congenito o acquisito, hanno difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età, quando hanno meno di 18 anni o più di 65 anni (1); oppure, hanno subito una riduzione permanente della capacità lavorativa di oltre un terzo, quando sono in età lavorativa (da 18 a 65 anni) (2). Inoltre, rientrano in questo gruppo anche i richiedenti che non sono in grado di compiere gli atti essenziali della vita quotidiana o di camminare (3). L’idoneità all’invalidità civile è un requisito fondamentale per le persone con disabilità per accedere alle prestazioni economiche; il processo di valutazione è gestito congiuntamente dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) e dalle autorità sanitarie locali. Il diritto a diverse prestazioni è legato alla percentuale di invalidità assegnata attraverso la valutazione dell’invalidità civile.

È importante notare che alcune eccezioni si applicano a coloro che possono ottenere lo status di invalidità civile ai sensi della Legge 118/1971, a ulteriore testimonianza della frammentazione del quadro giuridico. Le persone cieche e sorde non sono, in senso stretto, persone con invalidità civile, perché il loro stato di disabilità e le loro prestazioni sono regolate da disposizioni di legge diverse. La Legge 381/1970 definisce sorde le persone con sordità congenita o acquisita durante l’età evolutiva (entro il 12° anno di età) che impedisce loro il normale apprendimento del linguaggio parlato. La Legge 382/1970 definisce ciechi civili coloro che sono ciechi totali (assenza di residuo visivo o campo visivo residuo binoculare perimetrico inferiore al 3%) (a) o ciechi parziali (residuo visivo che non supera 1/20 con eventuale correzione, in entrambi gli occhi o riduzione del campo visivo inferiore al 10%) (b). La Legge 107/2010 è stata introdotta in una fase successiva per definire il concetto di sordocecità, per lo più basato su una combinazione delle definizioni di cui sopra. Queste leggi stabiliscono anche specifiche prestazioni economiche a supporto delle persone con disabilità e i dettagli del processo di valutazione, che condivide il contesto istituzionale e la maggior parte delle fasi con quello dell’invalidità civile. Tuttavia, il numero di persone che passano attraverso le valutazioni per la sordità, la cecità e la sordocecità è esiguo rispetto al numero di valutazioni per l’invalidità civile. Inoltre, le persone con problemi di udito o di vista che non hanno i requisiti per la sordità e la cecità dovranno sottoporsi anche alla regolare valutazione per l’invalidità civile.

Un secondo gruppo di eccezioni riguarda le persone che non hanno i requisiti per l’invalidità civile, perché la loro disabilità è insorta in un contesto lavorativo. Le leggi 1124/1965 e 38/2000 stabiliscono che le malattie professionali e gli infortuni sul lavoro devono essere considerati nella valutazione dell’invalidità da lavoro, attraverso un processo che è sotto la responsabilità dell’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro (INAIL). L’invalidità ottenuta in contesti di guerra è inoltre regolata da disposizioni legali separate, che corrispondono a diverse denominazioni, tra cui invalidi civili di guerra (Leggi 539/1950 e 142/1953), invalidi di guerra (Legge 367/1963) e invalidi per causa di servizio (Legge 214/2011). I diversi stati di invalidità corrispondono a diverse pensioni e indennità, con il Ministero dell’Economia e delle Finanze come autorità responsabile per tutte le pensioni di guerra e militari.

Infine, sebbene non si escluda a vicenda con l’invalidità civile, esiste un sistema alternativo per ottenere un supporto economico nel contesto dell’invalidità, che si applica solo alle persone con un passato lavorativo recente e uno storico di pagamenti di contributi alla previdenza sociale. Questo sistema assicurativo contributivo comporta un’ulteriore complessità giuridica, in quanto le definizioni di disabilità e le procedure di valutazione differiscono notevolmente a seconda che i richiedenti siano dipendenti del settore privato o lavoratori autonomi (Legge 222/1984), o dipendenti pubblici (Legge 335/1995).

Inoltre, mentre la maggior parte delle definizioni sopra descritte funzionano come alternative l’una all’altra nel contesto del supporto economico, altre due leggi chiave relative alla disabilità sono state adottate più tardi nel tempo, per completare il ventaglio di supporti disponibili. Queste leggi hanno creato ulteriori status di disabilità che sono cumulativi rispetto alle definizioni descritte sopra, il che significa che le persone con disabilità possono richiederli indipendentemente dal fatto che siano state valutate anche per l’invalidità civile, la cecità o la sordità, l’invalidità da lavoro/guerra (militare) o l’invalidità nel contesto del sistema assicurativo contributivo:

  • la Legge 104/1992 ha introdotto il concetto di “handicap”, che garantisce l’accesso a una serie di prestazioni che vanno dalle esenzioni dalla partecipazione ai costi dell’assistenza sanitaria alle detrazioni fiscali e ai diritti per i familiari, tra gli altri (vedere anche la Tabella 2.1). Una differenza essenziale rispetto alle definizioni precedenti è che il concetto di handicap va oltre l’approccio individualizzato e medico alla disabilità, concentrandosi maggiormente sul contesto sociale. Si passa dal considerare solo le malattie/disturbi e i relativi deficit funzionali, a considerare (1) come queste si traducono in limitazioni nello svolgimento delle attività e nella partecipazione sociale e (2) come tali limitazioni comportano uno svantaggio nel contesto sociale. Più specificamente, la Legge 104/1992 definisce l’handicap come una menomazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che causa difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. La legge stabilisce due livelli di handicap: handicap e handicap grave. Alle persone viene attribuito uno stato di handicap grave quando le menomazioni singole o multiple che riducono la loro autonomia personale – rispetto a quanto è normale per la rispettiva fascia d’età – comportano la necessità di ricevere un’assistenza permanente, continua e completa, sia nel contesto dei loro compiti individuali che nelle relazioni con gli altri.

  • La Legge 68/1999 è stata introdotta per promuovere l’accesso al lavoro delle persone con disabilità attraverso servizi di supporto e di collocamento mirato, promossi da una quota di occupazione per disabili. La disabilità nel contesto di questa legge è designata col termine disabilità, anche se esso designa solo uno dei molteplici status (riconosciuti dall’ordinamento italiano) trattati in questa sezione. Infatti, la disabilità per il sostegno all’occupazione non ha una propria definizione indipendente e una valutazione specifica, in quanto viene concessa a coloro che hanno i requisiti per l’invalidità civile (46% o più), la cecità o la sordità, l’invalidità lavorativa (33% o più) o l’invalidità di guerra.

Come per l’invalidità civile, la cecità e la sordità, anche gli accertamenti dell’handicap e della disabilità per il sostegno all’occupazione sono coordinati congiuntamente dall’INPS e dalle autorità sanitarie locali. Questi cinque concetti, che coesistono nell’ambito del sistema di supporto non contributivo e che rappresentano tutti una valutazione dello stato di disabilità, sono comunemente definiti in Italia come valutazioni di base o di primo livello. Tale denominazione le differenzia da una seconda serie di valutazioni che avvengono per lo più a livello regionale o comunale, al fine di abbinare le esigenze delle persone con disabilità ai servizi di supporto esistenti (pertanto chiamate anche valutazioni dei bisogni).

La legge delega del 2021 (Legge 227/2021) fornisce la base legale per una revisione della definizione di disabilità e del sistema di valutazione corrispondente, che abbraccia i principi della CRPD e che è conforme all’ICF. In questo modo, le valutazioni dello stato di disabilità non saranno più guidate solo da criteri medico-legali, ma valuteranno anche il funzionamento della persona, preparando il terreno per una maggiore partecipazione sociale. La legge delega del 2021, già citata nella prefazione di questo rapporto, propone di unificare le varie procedure di valutazione in vigore per affrontare la frammentazione della legislazione sulla disabilità. La nuova valutazione dello stato di disabilità o valutazione di base continuerà a determinare l’idoneità per indennità, sgravi fiscali e altre prestazioni per le persone con disabilità, e potrebbe potenzialmente essere seguita, su richiesta della persona, da una valutazione multidimensionale utilizzata per determinare un piano di vita individualizzato, personalizzato e partecipativo, che darà diritto a una serie di servizi sociali e sanitari.

In Italia coesistono diverse definizioni di disabilità, comprese quelle che corrispondono alle valutazioni di base o allo stato di disabilità: invalidità civile, cecità, sordità, handicap e disabilità per il sostegno all’occupazione. Sebbene ognuna di queste cinque definizioni corrisponda a una determinazione diversa, descritta in dettaglio in seguito, esse condividono alcuni aspetti comuni nel processo di valutazione e nell’attuazione. Il processo seguito dalle valutazioni di base consiste principalmente in tre fasi, in cui l’INPS e le autorità sanitarie locali alternano il livello di coinvolgimento e di guida. Le responsabilità specifiche dell’INPS e delle autorità sanitarie locali nel processo sono state modificate nel 2010 (Legge 102/2009), come parte di un processo generale di decentralizzazione, rafforzando così il ruolo del primo in diverse fasi del percorso.

I medici di medicina generale (MMG) sono il punto di partenza per richiedere le valutazioni dello stato di disabilità in Italia. Le persone con problemi di salute che desiderano una certificazione di disabilità (in senso ampio) devono rivolgersi al proprio MMG, che a sua volta orienterà il paziente e prescriverà gli esami medici necessari per certificare le condizioni che compromettono il funzionamento del richiedente. Questi esami medici possono essere condotti da qualsiasi medico certificato, ossia quasi tutti i medici in Italia – da quelli impiegati dalle autorità sanitarie locali, come i medici di assistenza primaria, ai medici liberi professionisti che lavorano per il Servizio Sanitario Nazionale. L’MMG della persona deve esaminare gli esami e compilare un certificato medico introduttivo su una piattaforma INPS online.

Il certificato medico introduttivo (modulo AP70) è un elemento importante nella procedura di valutazione dello stato di disabilità, soprattutto a causa del forte orientamento medico delle determinazioni di disabilità in Italia. Gli MMG svolgono quindi un ruolo chiave di abilitatori alla valutazione della disabilità, decidendo il contenuto delle visite mediche e suggerendo chi deve eseguirle. Ciò è simile in molti altri Paesi OCSE, ma la documentazione medica dell’MMG svolge un ruolo molto significativo in Italia nella formulazione della diagnosi e (talvolta) della valutazione funzionale e, quindi, della conseguente percentuale di invalidità civile della persona, a causa del tempo limitato e delle risorse disponibili da parte di chi valuta lo stato di disabilità.

Dopo la compilazione del certificato medico introduttivo, che produce un codice valido per 30 o 90 giorni, il passo successivo consiste nel presentare una domanda elettronica all’INPS utilizzando questo codice e specificando le diverse definizioni di disabilità (ad esempio, invalidità civile e/o handicap e/o invalidità per lavoro) per le quali il richiedente desidera essere valutato. La domanda può essere presentata dalla persona con disabilità o da un familiare, molto spesso con il supporto di associazioni di pazienti specifiche per la condizione medica del richiedente.

Questa seconda parte del processo è sotto la supervisione delle autorità sanitarie locali, che ricevono elettronicamente le informazioni contenute nella domanda e si occupano di compiti amministrativi come la prenotazione di un appuntamento con la commissione medico-legale e l’invito del richiedente. L’incontro con la commissione medico-legale è l’evento principale della procedura di valutazione e dovrebbe prevedere la presenza fisica del richiedente. È importante notare che, sebbene esistano differenze tra le varie località nella composizione della commissione e nei criteri e strumenti utilizzati (vedere sotto), una commissione medico-legale potrebbe condurre tre valutazioni di base contemporaneamente: invalidità civile (o cecità/sordità, a seconda dei casi), handicap e disabilità per il sostegno all’occupazione, con un solo incontro con la commissione (con procedure leggermente diverse tra le varie regioni). Il modo in cui la commissione traduce esattamente le informazioni cliniche in una percentuale di invalidità civile non è molto chiaro né trasparente, ma è simile a un metodo con tabella di Barème attraverso la quale si attribuisce una percentuale di invalidità a una determinata diagnosi; un metodo che si basa sull’esperienza, ma che manca di validità e affidabilità scientifica. Dopo l’incontro con la commissione e la sua decisione, l’autorità sanitaria locale completa il processo amministrativo e invia all’INPS le informazioni pertinenti e la percentuale di invalidità civile proposta.

L’ultima parte del processo è di competenza dell’INPS, che convalida il risultato della commissione medico-legale e prende una decisione finale. Quando è d’accordo con la decisione della commissione, l’INPS la comunicherà al richiedente e avvierà ulteriori fasi di verifica dell’idoneità necessarie per concedere le prestazioni a cui il richiedente potrebbe avere diritto, in particolare la raccolta dei dati socio-economici e reddituali necessari per la prova dei mezzi associata ad alcuni dei pagamenti di invalidità. Nei casi in cui l’INPS non è d’accordo con l’esito della commissione medico-legale, la domanda viene messa in attesa per ulteriori indagini. Tale indagine potrebbe basarsi sulle informazioni già raccolte o richiedere un’ulteriore valutazione del richiedente. Sebbene non siano disponibili dati quantitativi, l’evidenza aneddotica descrive la fase di convalida da parte dell’INPS come un’importante pietra miliare delle valutazioni dello stato di invalidità, con una percentuale considerevole di domande che vengono messe in attesa per ulteriori indagini, soprattutto per quanto riguarda gli alti gradi di invalidità civile. Questa indagine supplementare ha implicazioni sulla durata del processo complessivo, in quanto generalmente ritarda la decisione di diversi mesi e potrebbe anche richiedere un’ulteriore visita del richiedente ai fini della valutazione. Pertanto, nell’ultimo decennio sono state introdotte diverse misure con l’obiettivo di ridurre la percentuale di valutazioni sospese dall’INPS.

La Legge 102/2009 ha introdotto la partecipazione di un medico dell’INPS alle commissioni medico-legali, che dovrebbe contribuire a un migliore allineamento tra la decisione della commissione e la sua convalida da parte dell’INPS. Più recentemente, in risposta alla pandemia COVID-19, l’INPS ha anche stabilito il concetto formale di “valutazione d’ufficio”, su mera base documentale, che consente di raccogliere ulteriori informazioni per la procedura di verifica senza richiedere all’utente di comparire nuovamente davanti alla commissione. Il successo di queste misure nello snellire l’ultima parte delle valutazioni di base non può essere valutato con i dati disponibili. Tuttavia, le informazioni ricavate dalle interviste sul campo suggeriscono che l’effettiva attuazione di questi sforzi potrebbe essere limitata, a causa della rara partecipazione dei medici dell’INPS alle commissioni medico-legali. La decisione finale dell’INPS non viene condivisa con la corrispondente autorità sanitaria locale, il che impedisce a quest’ultima di seguire l’intero percorso di valutazione per una parte considerevole dei suoi richiedenti e di conoscere le differenze tra la sua proposta iniziale e la decisione finale dell’INPS.

È importante notare che esistono alcune eccezioni alla procedura di valutazione dello stato di disabilità sopra descritta, che non è seguita da tutte le regioni o province italiane. Una di queste eccezioni deriva da una convenzione tra l’INPS e alcune autorità sanitarie locali (Convenzione Invalidità Civile o CIC). Le convenzioni sono attualmente in vigore in alcuni distretti sanitari in Campania (Avellino, Benevento, Caserta e Salerno), Friuli Venezia Giulia (Pordenone), Sicilia (Trapani, Caltanissetta e Messina) e Veneto (San Donà di Piave, Verona e Venezia) e in tutti i distretti sanitari in Basilicata, Calabria e Lazio. Attraverso queste convenzioni, alcune regioni o province hanno trasferito la piena responsabilità dell’accertamento dello stato di disabilità all’INPS, rendendo le sedi regionali dell’Istituto responsabili di occuparsi dell’intero processo, comprese le parti solitamente svolte dalle autorità sanitarie locali. Sebbene le prime parti del processo rimangano in linea di principio le stesse, in queste regioni o province si può osservare una semplificazione con l’eliminazione della fase di verifica, in quanto l’INPS supervisiona la commissione medico-legale stessa. Rendendo l’esito della commissione la decisione finale della valutazione dello stato di disabilità, tali convenzioni riducono la durata complessiva della procedura di richiesta e le risorse solitamente necessarie per la procedura di verifica. Un’altra eccezione alla procedura di default seguita per la valutazione dello stato di invalidità si osserva nelle regioni e province autonome, come il Trentino. In Trentino, le prestazioni non vengono attribuite dall’INPS, ma dall’agenzia corrispondente della Provincia autonoma.

Nonostante le somiglianze nella procedura seguita, ci sono anche importanti differenze nelle valutazioni dello stato di disabilità per le diverse definizioni di disabilità. Le principali differenze sono descritte di seguito e riguardano la composizione delle commissioni medico-legali, i criteri e gli strumenti utilizzati nella valutazione e il modo in cui i diversi risultati si collegano all’accesso alle prestazioni e ai servizi.

L’accertamento dell’invalidità civile è un requisito per le persone con disabilità per accedere alle prestazioni di invalidità. L’accertamento della cecità e della sordità può essere considerato come un equivalente dell’invalidità civile per queste condizioni, fornendo l’accesso a prestazioni analoghe. In linea di principio, i requisiti per l’invalidità civile, la cecità e la sordità si escludono a vicenda, anche se le persone possono chiedere di essere valutate sia per l’invalidità civile che per la cecità o la sordità, se non è chiaro se si qualificano per una delle ultime due.

Come stabilito dalla Legge 295/1990, la commissione medico-legale che valuta l’invalidità civile deve comprendere tre medici, solitamente selezionati tra quelli impiegati o affiliati all’autorità sanitaria locale. Il presidente della commissione dovrebbe essere uno specialista in medicina legale, mentre uno degli altri medici dovrebbe essere uno specialista in medicina del lavoro. In pratica, i medici del lavoro spesso non sono disponibili e due dei tre posti di medico sono occupati da medici di altre specialità. La commissione deve comprendere anche un operatore dell’associazione che rappresenta la condizione medica del richiedente – quali Associazione Nazionale dei Mutilati e Invalidi Civili (ANMIC), Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti (UICI), Ente Nazionale per la protezione e l’assistenza dei Sordi (ENS) e Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con disabilita intellettiva e disturbi del neurosviluppo (Anffas) – e un segretario. Secondo le rispettive leggi, la differenza nella composizione delle commissioni che valutano la cecità civile (382/1970) e la sordità civile (381/1970) è il requisito dell’inclusione di un medico specialista nelle condizioni oggetto di valutazione – un oculista o un otorinolaringoiatra. Infine, dal 2010, le commissioni devono essere integrate da un medico affiliato alla sede regionale dell’INPS, il cui contributo alla valutazione dovrebbe ridurre la probabilità che la domanda venga trattenuta per un’ulteriore verifica da parte dell’INPS, dopo la decisione della commissione medico-legale. In pratica, tuttavia, i medici dell’INPS sono raramente presenti.

La commissione si basa principalmente sulle informazioni raccolte nel certificato medico introduttivo. Sebbene possa anche raccogliere informazioni aggiuntive sulla condizione medica, compresa la visita in loco dei richiedenti, la breve durata della visita (di solito meno di 10 minuti) è una pratica comune, che lascia un’opportunità limitata di interagire con il richiedente. Un’eccezione all’interazione di breve durata sembra essere in atto in Trentino, dove la commissione ha riferito di trascorrere in media circa 25 minuti con ogni richiedente. Un’altra differenza considerevole per questa Provincia autonoma è che la commissione è composta esclusivamente da un medico specializzato in medicina legale.

La determinazione dell’invalidità civile è una valutazione medicalizzata per legge: mira a cogliere la limitazione funzionale permanente derivante da determinate malattie o disturbi, che a loro volta devono essere adeguatamente caratterizzati attraverso dati clinici e di laboratorio. In teoria, la commissione dovrebbe considerare: l’entità della perdita anatomica o funzionale totale o parziale degli organi (1); la possibilità di utilizzare dispositivi protesici per garantire il ripristino totale o parziale di una funzione degli organi e delle strutture corporee danneggiate (2); e l’importanza, nelle attività lavorative o rispetto agli standard funzionali per il rispettivo gruppo di età, dell’organo o della struttura corporea per il danno anatomico o funzionale (3). In pratica, la commissione utilizza le informazioni cliniche disponibili per classificare i richiedenti con diagnosi legate a percentuali di invalidità civile legalmente predefinite. Al di là dell’esecuzione delle diagnosi, il potere discrezionale dei valutatori è limitato alla scelta di un valore all’interno degli intervalli di dieci punti percentuali consentiti per alcune condizioni di salute o alla riduzione/aumento delle percentuali fino a cinque punti percentuali, a seconda della rilevanza della limitazione funzionale per le (potenziali) attività lavorative del richiedente. Nel caso di gravi limitazioni funzionali cumulative, la somma delle percentuali deve essere preceduta da una valutazione dell’impatto reale delle condizioni aggiuntive sul funzionamento del richiedente. Le limitazioni funzionali che corrispondono a meno di dieci punti percentuali di invalidità civile non sono per lo più considerate in termini cumulativi. La decisione si basa su tabelle di corrispondenza aggiornate l’ultima volta nel 1992, che possono riflettere conoscenze mediche superate in molti casi.

Esistono diversi problemi nell’uso di queste tabelle, che non solo includono condizioni non più rilevanti, ma ne tralasciano altre che oggi sono sempre più importanti per la determinazione dell’invalidità, soprattutto per quanto riguarda l’ampio spettro di disturbi mentali, spesso molto diffuse ma ancora altamente stigmatizzate. Altrettanto importante, le percentuali attribuite alla diagnosi ignorano trent’anni di progressi della medicina, che possono attenuare i sintomi e l’impatto sul funzionamento della maggior parte delle malattie conosciute. Pertanto, l’uso di tali tabelle di corrispondenza obsolete aggiunge l’inadeguatezza di un approccio puramente medico che attribuisce percentuali standardizzate di invalidità a una diagnosi, ignorando il ruolo del contesto ambientale per ciascun richiedente e la rilevanza dell’interazione tra la ridotta funzionalità e l’ambiente.

Un’altra incoerenza della valutazione dell’invalidità civile risiede in un’ulteriore definizione di disabilità che viene valutata solo per coloro che sono classificati con il 100% di invalidità civile. In questo caso, la commissione valuta anche la capacità del richiedente di camminare o di compiere atti essenziali della vita quotidiana, sebbene manchino indicazioni aggiuntive su come eseguire questa valutazione. L’esito di questa valutazione aggiuntiva è una decisione binaria che si aggiunge alla percentuale di invalidità civile, dando accesso a misure di supporto aggiuntive. La Tabella 2.1 riassume in termini semplici come i risultati delle valutazioni di invalidità civile, cecità e sordità si colleghino alla disponibilità di supporti a livello nazionale. Mentre i richiedenti sono considerati affetti da invalidità civile con percentuali superiori al 33%, i supporti più rilevanti sono disponibili solo con percentuali superiori al 67%.

Il riconoscimento di uno stato di invalidità civile è anche un prerequisito per lo stato di disabilità riconosciuto per il sostegno all’occupazione (46% dell’invalidità civile, vedere più avanti), e per alcune delle procedure di valutazione dei bisogni che vengono condotte per le persone per determinare l’idoneità e l’accesso alle prestazioni e ai servizi regionali e comunali.

La valutazione dello stato di handicap deriva dall’applicazione della definizione fornita dalla Legge 104/1992. Questa definizione comprende tre elementi e stabilisce che una persona handicappata è una persona che presenta una menomazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva (1), che causa difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa (2) e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione (3).

Sebbene chiunque possa richiedere un accertamento dell’handicap, compresi gli invalidi del lavoro e di guerra e coloro che rientrano nel sistema contributivo di assicurazione dell’invalidità, l’accertamento viene spesso eseguito parallelamente all’accertamento dell’invalidità civile, compresa la visita alla commissione. La commissione per l’handicap ha una composizione simile a quella della commissione per l’invalidità civile, tranne per il fatto che dovrebbe includere anche un assistente sociale. In Trentino, l’assistente sociale integra la commissione di un solo medico solo per i casi più complessi, mentre la consultazione a posteriori avviene più spesso. Nel complesso, l’aggiunta di un assistente sociale a una commissione che altrimenti è prevalentemente o esclusivamente medica riflette la diversa natura della definizione di disabilità applicata per la valutazione dell’handicap. Infatti, il concetto di handicap è l’unico tra le definizioni di disabilità coesistenti in Italia che offre un certo spazio per andare oltre i modelli di disabilità legati al corpo fisico e alla medicina ed esplorare il funzionamento del richiedente nel contesto delle barriere attitudinali e di altro tipo al funzionamento. Sebbene questo sia un aspetto positivo – e più in linea con i principi promossi dall’ICF – non è chiaro come questo si concretizzi nella pratica, dato che la commissione non utilizza altri criteri o strumenti e la visita è comunque di durata molto breve. La valutazione dell’handicap può portare a uno dei tre risultati: nessun handicap, handicap e handicap grave. La distinzione tra queste ultime due categorie è stabilita dalla Legge 104/1992, che definisce un handicap come grave se la diminuzione dell’autonomia personale – e tenendo conto dell’età rispettiva della persona – porta alla necessità di ricevere un’assistenza permanente, continua e completa, sia nell’ambito dello svolgimento di compiti individuali che nella relazione con gli altri. In pratica, questo si traduce nella valutazione della necessità del richiedente di ricevere assistenza e supporto permanenti. Il requisito della permanenza implica una certa persistenza del deficit che porta a un funzionamento ridotto e a uno svantaggio sociale, pur potendo mutare nel tempo. Nel complesso, anche se la sua definizione è più in linea con l’approccio ICF alla disabilità, la valutazione dell’handicap sembra essere permeata da considerazioni mediche onnipresenti nel sistema italiano. Ad esempio, alcune condizioni di salute sono state determinate a priori per conferire direttamente l’idoneità allo stato di handicap grave. Questo è il caso, ad esempio, dei richiedenti sottoposti a dialisi (guida del Ministero della Salute 17 novembre 1998), con sindrome di Down (Legge 290/2002), con fibrosi cistica o con sordità (comunicazioni interne dell’INPS).

Lo stato di handicap consente l’accesso a misure di supporto aggiuntive, e lo stato di handicap grave è spesso un requisito. Le prestazioni aggiuntive vanno dalle esenzioni dai ticket per le cure mediche, che consentono l’accesso gratuito ai servizi sanitari, a prestazioni per l’individuo e i suoi familiari nel contesto della partecipazione al lavoro (come il diritto a tre giorni al mese di congedo per assistenza, l’estensione del periodo di congedo parentale, l’esenzione dai turni notturni e la flessibilità nella scelta del luogo di lavoro) e a sconti e agevolazioni come le detrazioni fiscali per l’acquisto di ausili e l’esenzione fiscale per l’acquisto di un veicolo a motore. Lo stato di handicap è anche un primo passo importante per creare l’idoneità ai supporti forniti a livello regionale, dopo aver effettuato una valutazione dei bisogni a livello locale.

La valutazione della disabilità per il sostegno all’occupazione (designata come disabilità nella Legge 68/1999) si differenzia dalle altre valutazioni di base, in quanto consiste principalmente nel verificare se il richiedente – che deve avere un’età compresa tra i 14 e i 65 anni – ha i requisiti per l’invalidità civile con una percentuale di almeno il 46% o per la cecità civile o la sordità, l’invalidità lavorativa con una percentuale di almeno il 33% o l’invalidità di guerra.

La valutazione della disabilità per il sostegno all’occupazione viene spesso effettuata in parallelo alla valutazione dell’invalidità civile e dell’handicap. La commissione di valutazione dovrebbe essere come quella che valuta lo stato di handicap, includendo un assistente sociale oltre ai membri medici. Mentre la presenza di un gruppo multidisciplinare sarebbe certamente rilevante per una valutazione approfondita delle persone con disabilità a fini occupazionali, il ruolo della commissione nel contesto della Legge 68/1999 sembra essere esclusivamente una verifica amministrativa dei risultati di altre valutazioni di disabilità. Le informazioni qualitative sulle capacità professionali del richiedente potrebbero essere incluse nel rapporto di valutazione, ma non ci sono linee guida su come farlo, né prove che dimostrino la prevalenza di questa pratica.

Essere valutati come disabili per il sostegno all’occupazione permette alle persone di qualificarsi per una serie di strumenti che dovrebbero facilitare il loro collocamento mirato e la loro partecipazione al mercato del lavoro. Il vantaggio principale consiste nell’essere inseriti in una lista per un ulteriore supporto fornito dai servizi per l’impiego a livello provinciale (ogni regione in Italia è composta da più province). Inoltre, i richiedenti che si qualificano attraverso l’invalidità civile possono ottenere ulteriori benefici legati all’occupazione quando la loro percentuale è superiore a dei limiti, come ad esempio:

  • 50%: idoneità agli adeguamenti del posto di lavoro, rimozione delle barriere sul posto di lavoro, impostazione del telelavoro.

  • 60%: qualifica per la quota di occupazione per persone con disabilità che i datori di lavoro sono tenuti a soddisfare (anche per i candidati già occupati al momento della valutazione).

  • 67-80%: tassazione dei contributi previdenziali ridotta del 50% per i primi cinque anni.

  • 80% (e con una disabilità intellettiva o mentale): esonero dai contributi previdenziali per i primi otto anni.

  • Disabilità intellettiva o mentale: collocazione garantita.

Le attuali procedure di valutazione dello stato di disabilità offrono un margine limitato per una rivalutazione efficiente dei risultati di una decisione iniziale. Non esistono scadenze rigide per la rivalutazione o requisiti di rinnovo per i risultati di una delle cinque definizioni di stato di disabilità. Sebbene le commissioni possano includere tali requisiti nella relazione di valutazione, i dati disponibili non consentono di trarre conclusioni sul fatto che si tratti di una pratica ricorrente. Sebbene una certa flessibilità nel definire la necessità di rivalutazione possa essere una buona pratica, consentendo alla commissione di personalizzare tale decisione in base al contesto del richiedente e del suo ambiente sociale, le condizioni e la periodicità della rivalutazione dovrebbero essere regolate dalla legislazione, con indicazioni e trasparenza sui criteri da utilizzare in tali decisioni.

Per i richiedenti che non sono d’accordo con l’esito della valutazione, le possibilità di appello contro la decisione sono teoricamente limitate a una procedura giudiziaria che può essere presentata fino a 180 giorni dopo la decisione. Questa procedura è stata modificata dal 2012 (Legge 111/2011) con l’obiettivo di ridurre la durata del processo giudiziario, che può durare diversi anni, ed evitare di sovraccaricare il sistema giudiziario civile. Tuttavia, si tratta ancora di una procedura complessa, che può scoraggiare le persone con disabilità dal perseguirla, in quanto dovranno anche sostenere una parte dei costi necessari. La procedura d’appello modificata prevede una prima fase che precede il pieno coinvolgimento del giudice e le consuete attività giudiziarie, come le udienze. Questo primo passo consiste in una valutazione tecnica preventiva (accertamento tecnico preventivo) effettuata da un consulente: un medico nominato dal giudice. Solo se le parti non sono d’accordo con l’esito dell’accertamento tecnico preventivo, il processo passa al consueto percorso giudiziario, che è lungo e richiede molte risorse (come lo era prima del 2012). In Trentino, a differenza del resto del Paese, è possibile presentare un ricorso amministrativo entro 60 giorni dalla decisione della commissione medica unica. Il ricorso porta a una valutazione di secondo grado da parte di una commissione di tre medici, uno dei quali deve rappresentare l’associazione di persone con disabilità interessata.

È interessante notare che, nonostante la complessità del processo di appello, non esiste un limite al numero di volte in cui una persona può richiedere una valutazione, iniziando così il processo da zero. Questo, insieme alla complessità del processo di appello, potrebbe portare a incentivi involontari per presentare nuove richieste e ricominciare il processo piuttosto che fare appello. In effetti, le procedure dell’INPS consentono ai richiedenti di presentare una richiesta di annullamento di un processo/decisione in corso, nel qual caso la documentazione a supporto di tale richiesta viene valutata da una commissione superiore dell’INPS. Questa valutazione ha tre possibili esiti: può confermare la decisione precedente, può annullare il processo/decisione in corso e inviare il paziente a ricominciare il processo, oppure può modificare direttamente la decisione in base a quella richiesta dal richiedente. In pratica, questo processo sembra essere equivalente a un (inefficiente) appello amministrativo. Evidenzia inoltre i limiti delle attuali procedure giudiziarie nel garantire il diritto di appello contro una decisione di disabilità basata in primo luogo su una valutazione eccessivamente medicalizzata e obsoleta.

Le figure seguenti riassumono l’andamento dell’ultimo decennio dei tassi di richiesta e di accettazione degli accertamenti di invalidità civile e di handicap. Si possono osservare i seguenti andamenti:

  • le richieste di invalidità civile fluttuano di anno in anno, ma hanno avuto una tendenza graduale all’aumento fino alla pandemia COVID-19, soprattutto per la popolazione totale, ma in misura minore anche per la popolazione in età lavorativa. Nel 2021, il numero di richieste di invalidità civile è tornato al livello del 2019 (Figura 2.1, Pannelli A e C).

  • Le richieste di handicap sono in forte aumento e sono raddoppiate tra il 2010 e il 2017 sia per la popolazione totale che per quella in età lavorativa. Dal 2017, l’aumento tendenziale si è appiattito. Dopo un calo nel 2020, il livello nel 2021 è stato superiore al livello pre-pandemia (Figura 2.1, Pannelli B e D).

  • L’aumento delle richieste di invalidità civile e di handicap nell’ultimo decennio per le persone in età lavorativa è stato in gran parte guidato dalle regioni del centro e del sud del Paese (Figura 2.2). Le regioni insulari (Sardegna e Sicilia) rappresentano una notevole eccezione, in quanto hanno registrato un rapido aumento delle valutazioni di handicap, ma nessun aumento delle valutazioni di invalidità civile.

  • Per quanto riguarda l’invalidità civile, le regioni con i maggiori aumenti avevano tassi di applicazione più elevati già dieci anni fa; di conseguenza, il divario nord-sud è aumentato ulteriormente, con tassi al nord spesso inferiori all’1,5% della popolazione in età lavorativa ogni anno e tassi al sud superiori al 2.5% (Figura 2.2, Pannello A). Per le valutazioni dell’handicap, i tassi erano più simili in tutte le regioni dieci anni fa, oscillando intorno allo 0,75% della popolazione in età lavorativa. Oggi, i tassi nel sud sono tipicamente doppi rispetto al nord (2% contro 1% della popolazione in età lavorativa) (Figura 2.2, Pannello B).

  • I tassi di accettazione sono generalmente abbastanza simili tra le varie regioni e, nel complesso, piuttosto elevati, in particolare per le domande di handicap. I tassi di accettazione delle domande di invalidità civile convergono verso il 50-60% in tutte le regioni d’Italia, in quanto le regioni che in passato avevano tassi di accettazione più elevati – sia al nord che al sud – hanno registrato un calo di tali tassi (Figura 2.3).

  • I tassi di accettazione delle domande per handicap sono rimasti elevati e sostanzialmente invariati tra il 2010 e il 2021, intorno o addirittura sopra il 90% (Figura 2.4, Pannello A). La maggior parte delle domande viene accolta con lo status di “handicap grave”, ma la distribuzione tra lo status di handicap e quello di handicap grave varia notevolmente da regione a regione (Figura 2.4, Pannello B). Le regioni meridionali con un numero maggiore di richieste di handicap tendono a concedere uno status di handicap grave meno spesso rispetto alle altre regioni.

Le persone con disabilità che hanno un passato lavorativo possono (in aggiunta) richiedere valutazioni di invalidità alternative (diverse dall’invalidità civile) per determinare l’idoneità alle prestazioni dell’assicurazione invalidità. I richiedenti del regime contributivo di assicurazione invalidità devono aver pagato i contributi previdenziali sui loro guadagni per almeno cinque anni (260 settimane), di cui tre anni (156 settimane) negli ultimi cinque anni. Mentre questi requisiti contributivi sono gli stessi per tutti i lavoratori, esistono differenze significative nella definizione di disabilità, nella procedura di valutazione e nelle principali istituzioni coinvolte, a seconda che i richiedenti siano dipendenti o autonomi del settore privato (Legge 22/1984) o dipendenti pubblici (Legge 335/1995). La seguente descrizione si riferisce principalmente alla valutazione per il primo gruppo, in quanto riguarda una percentuale molto più ampia della popolazione.

I dipendenti del settore privato o i lavoratori autonomi vengono valutati per una riduzione della loro capacità lavorativa dovuta a una malattia/disturbo o a una limitazione funzionale fisica o mentale che non dovrebbe essere una conseguenza della loro attività professionale. La riduzione può essere valutata come parziale, se supera il 33%, o come totale. All’invalidità parziale e totale corrispondono prestazioni diverse, rispettivamente l’assegno ordinario di invalidità e la pensione ordinaria di inabilità.

A prima vista, la definizione di invalidità nel sistema assicurativo sembra avere alcune somiglianze con quella di invalidità civile, che copre le persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni che hanno subito una riduzione permanente della capacità lavorativa superiore a un terzo. In pratica, la differenza principale sembra essere nel modo in cui viene effettuata la determinazione. Mentre la percentuale di invalidità civile è determinata con un metodo simile a quello con tabella di Barème, non sono previsti metodi o strumenti aggiuntivi per la valutazione dell’invalidità nel sistema assicurativo. D’altra parte, la valutazione della capacità lavorativa in quest’ultimo sistema deve prendere in considerazione le attitudini esistenti e il lavoro precedentemente svolto con queste attitudini.

La richiesta al sistema contributivo segue la stessa procedura delle altre valutazioni di invalidità, essendo presentata elettronicamente all’INPS e richiedendo un certificato medico introduttivo simile. Tuttavia, le autorità sanitarie locali non hanno alcun ruolo nell’intero processo, che viene svolto interamente dall’INPS. La valutazione viene effettuata da un unico medico dell’INPS che valuta le condizioni mediche del richiedente. Il medico dell’INPS deve prendere in considerazione la gravità e la persistenza della condizione, l’esistenza di opzioni di trattamento e riabilitazione adeguate e l’impatto sul funzionamento in relazione al lavoro. Questa valutazione deve includere la considerazione dell’istruzione e della formazione del richiedente, delle esperienze lavorative precedenti e dell’attitudine al lavoro, nonché delle possibili prospettive di carriera alternative/adattate. Sebbene la valutazione rimanga altamente medicalizzata, tali considerazioni offrono l’opportunità di un’analisi migliore del contesto sociale e dell’ambiente rispetto all’applicazione del metodo con tabella di Barème. Nel sistema assicurativo, condizioni cliniche identiche potrebbero in linea di principio portare a percentuali di invalidità molto diverse – a seconda delle capacità lavorative del richiedente, dei compiti lavorativi e delle occupazioni adatte. Tuttavia, la determinazione appropriata dell’invalidità in questo contesto sembra essere ostacolata dalla mancanza di uno strumento affidabile e valido per tradurre la serie di considerazioni di cui sopra nel risultato numerico finale richiesto.

Un’altra differenza tra l’invalidità civile e l’invalidità nel sistema contributivo riguarda la natura vincolante della decisione dell’INPS in quest’ultimo caso, poiché i richiedenti possono scegliere se richiedere l’assegno ordinario di invalidità o la pensione ordinaria di inabilità: hanno il diritto di optare per l’assegno, anche se la commissione decide che sono totalmente incapaci di lavorare. In pratica, i richiedenti possono optare per l’indennità a causa delle condizioni legate all’ammissibilità alla pensione ordinaria di inabilità: l’obbligo di cessare ogni attività lavorativa, di essere cancellati dagli albi professionali e da altre liste di collocamento pertinenti, e di essere esentati dall’assicurazione di disoccupazione o da altre integrazioni di reddito. Ci sono alcune situazioni professionali, in particolare tra i lavoratori autonomi e le persone che gestiscono aziende familiari, in cui i richiedenti sono incoraggiati a proseguire l’attività professionale anche se sono stati valutati come totalmente invalidi a tale scopo. Anche se in pratica non ci sono dati per valutare la frequenza di questa situazione, una tale discrepanza tra la decisione di valutazione e la prestazione ricevuta evidenzia i limiti dell’attuale metodo di valutazione nel rilevare correttamente la disabilità, in quanto può classificare come totalmente disabili persone che sono in grado e disposte a continuare a lavorare. Un’ultima differenza tra le pratiche di accertamento dell’invalidità contributiva e civile è che nella prima le persone classificate come parzialmente invalide e quindi aventi diritto all’assegno ordinario di invalidità devono essere rivalutate dopo tre anni per un massimo di due volte, dopodiché l’invalidità viene definitivamente considerata permanente.

Per accedere alle prestazioni e ai servizi a livello regionale e comunale, le persone con disabilità devono sottoporsi a un secondo livello di valutazione, che valuta le loro esigenze e il diritto ai servizi sanitari e sociali e ai programmi per soddisfare tali esigenze. Sebbene questo approccio sia stato adottato in molti Paesi dell’OCSE, la sua attuazione in Italia deve affrontare molte sfide. La sfida principale deriva dal sistema di protezione sociale frammentato e in cui è difficile orientarsi a livello regionale e comunale, con una rigida divisione tra i settori sanitario (socio-sanitario) e sociale (socio-assistenziale). La complessità insita in questa divisione è aggravata da un approccio alle esigenze delle persone orientato ai servizi, in cui sia la valutazione che l’intero percorso del cliente sono modellati dai servizi e dai programmi disponibili e dal modo in cui sono organizzati, comprese le loro fonti di finanziamento.

Le valutazioni dei bisogni in Italia sono storicamente dipendenti dalle prestazioni e dai servizi, il che significa che occorre presentare una domanda e una valutazione dei bisogni separate per ogni prestazione e servizio fornito da una regione o da un comune. Per rispondere alle complesse esigenze delle persone con disabilità, le regioni hanno costruito negli anni un considerevole portafoglio di servizi e programmi. Sebbene l’esistenza di queste risposte sia un aspetto positivo, diventa una sfida per i cittadini orientarsi tra le molteplici procedure di richiesta e di valutazione di tale sistema, che spesso finisce per essere guidato dall’offerta piuttosto che dalla domanda (o dal bisogno), portando potenzialmente a una distorsione delle richieste per soddisfare i criteri di idoneità.

Pertanto, il sistema di protezione sociale per le persone con disabilità – e più in generale per i cittadini vulnerabili – è caratterizzato da molteplici punti di accesso e percorsi da percorrere, e da una conseguente molteplicità di valutazioni dei bisogni. Negli ultimi anni, la proliferazione dei programmi e delle prestazioni disponibili non ha fatto altro che esacerbare questo problema. Un sistema così frammentato manca di efficienza e di equità, in quanto le persone con problemi simili rischiano di vivere situazioni molto diverse, con valutazioni delle esigenze diverse e un supporto diverso, a seconda del loro primo contatto e dell’interlocutore che trovano. Ciò comporta anche un onere considerevole per la persona e la sua famiglia, che deve orientarsi in un sistema di questo tipo, che richiede una profonda conoscenza delle questioni amministrative e quindi una grande quantità di tempo e di sforzi.

Altre due caratteristiche del sistema italiano contribuiscono in modo significativo alla sua complessità. In primo luogo, il fatto che i servizi e i programmi vengono solitamente aggiunti alle soluzioni esistenti, creando un ulteriore punto di accesso o procedura da seguire, spesso a seconda della parte del sistema che fornisce il servizio o il programma e della sua fonte di finanziamento. In secondo luogo, e soprattutto, esiste un grande divario tra i servizi sanitari e sociali a livello regionale, dall’alto (direzioni generali all’interno delle amministrazioni regionali) al basso (autorità sanitarie locali e servizi forniti a livello comunale) del sistema. Sebbene questi due settori servano una popolazione simile e i rispettivi servizi possano sovrapporsi in alcune aree, sono organizzati, operano e sono finanziati in modi molto diversi. La riforma costituzionale del 2001 ha aumentato la complessità con la devoluzione dei poteri ai livelli inferiori di governo, rendendo le politiche e gli affari sociali e sanitari una questione prevalentemente regionale.

Per superare la frammentazione e la mancanza di armonizzazione nell’affrontare l’emergere di bisogni complessi, diverse regioni italiane hanno deciso di creare dei punti unici di accesso al sistema (noti prevalentemente come Punto Unico di Accesso, PUA). Una definizione per questi PUA è stata sviluppata congiuntamente da nove regioni italiane nel 2008, con una forte attenzione a contribuire a una migliore integrazione tra i settori sanitario e sociale. Questo obiettivo doveva essere raggiunto attraverso diverse funzioni assegnate ai punti unici di accesso, tra cui un ruolo ampliato nella presa in carico delle persone bisognose, durante tutto il processo di valutazione e nel percorso di cura. In pratica, le regioni hanno modellato le funzioni dei loro PUA in base alle caratteristiche della regione ospitante e del suo quadro istituzionale. Gli studi che hanno analizzato le prestazioni dei PUA diversi anni dopo la loro implementazione iniziale hanno evidenziato una notevole eterogeneità nel modo in cui operavano, nelle funzioni che assumevano e nei loro collegamenti con i settori sanitario e sociale (Pesaresi, 2013[1]). La maggior parte di queste limitazioni osservate nei punti unici di accesso al sistema di protezione sociale italiano sembrano persistere.

Mentre alcuni PUA possono avere funzioni limitate a fornire informazioni sulle risorse disponibili e su come accedervi, la maggior parte di queste strutture è stata segnalata come operante a un livello intermedio di supporto, responsabile anche di funzioni come la pre-valutazione e il rinvio delle persone a soluzioni che non richiedono un’ulteriore valutazione o alla valutazione multidimensionale dei bisogni da parte di unità multidisciplinari. Questo sembra essere il modello dei PUA nelle quattro regioni studiate, anche se in pratica ci sono differenze a seconda del rispettivo ecosistema di politiche sulla disabilità. In Trentino, i PUA hanno una portata limitata, soprattutto a causa del forte ruolo dei medici legali all’interno delle autorità sanitarie locali. In questa regione, il ruolo dei medici legali va oltre la valutazione iniziale della disabilità: di fatto, sono il punto di accesso al sistema. Inoltre, a causa della popolazione ridotta della regione, i medici legali hanno una visione d’insieme dell’intero percorso seguito dalle persone con disabilità. In pratica, i punti unici in Trentino sono utilizzati principalmente da persone vulnerabili a causa della loro età, piuttosto che della loro disabilità.

Al di là dell’intensità di base o intermedia, i punti unici di accesso possono anche operare a un livello più intenso. In questo caso, queste strutture dovrebbero avere il ruolo di prendere in carico i clienti più complessi, dalla registrazione del caso e dalla raccolta dei dati, passando per le valutazioni multidimensionali dei loro bisogni, la creazione e il monitoraggio di piani personalizzati e la gestione del rapporto con i fornitori di servizi. Nella presa in carico, i PUA dovrebbero svolgere un ruolo nel migliorare la governance del sistema e nel realizzare un processo integrato e articolato, che garantisca alle persone un coordinamento fluido degli interventi per rispondere alle loro esigenze complesse. Tuttavia, non è stato possibile identificare una regione in cui i PUA svolgano in modo coerente un ruolo di accesso unico e di gestione dei casi così completo. Il più vicino a questo modo di operare sembra esistere solo per alcuni programmi e per i rispettivi flussi di finanziamento. In Sardegna, ad esempio, i PUA hanno un ruolo importante nel sostenere le persone con disabilità che accedono a programmi di inclusione come “Dopo di noi” e “Ritornare a casa”. In Campania, queste strutture raccolgono le esigenze delle persone con disabilità che passano attraverso le unità di valutazione multidisciplinare, ma non seguono ulteriormente queste persone.

Un altro aspetto chiave del ruolo dei punti unici di accesso è se e in che misura riescono a fornire un’interfaccia integrata per i domini sanitario e sociale. In Sardegna, i PUA sono concepiti come strutture del settore sanitario, appartenenti esclusivamente alle autorità sanitarie locali e, quindi, corrispondenti a punti di accesso di secondo livello che dovrebbero seguire un primo contatto con i servizi sociali del Comune (settore sociale). In altre regioni, anche quando si prevede che i PUA abbiano un ruolo nell’integrazione dei domini sanitario e sociale, nella maggior parte dei casi queste strutture sembrano essere legate al lato sanitario e sono sportelli o strutture che fanno parte delle autorità sanitarie locali, nonché una porta d’accesso alla valutazione multidisciplinare necessaria per alcuni servizi residenziali, semi-residenziali e di assistenza domiciliare (integrata) legati alla salute. Tra le quattro regioni studiate, le Porte Uniche di Accesso della Campania mostrano la maggiore attenzione all’integrazione dei settori sanitario e sociale. In pratica, l’evidenza aneddotica suggerisce che l’integrazione effettiva viene raggiunta solo in circa un terzo di questi punti unici di accesso, con solo cinque su 72 situati nei servizi comunali piuttosto che nell’autorità sanitaria locale. Una delle principali conseguenze dell’incapacità di promuovere adeguatamente l’integrazione tra i settori sanitario e sociale è che queste strutture finiscono per non svolgere il ruolo di punto unico di accesso nel sistema. Infatti, i PUA probabilmente non sono nemmeno il primo punto di contatto più comune, un posto che viene occupato dai fornitori di servizi sociali dei Comuni (dominio sociale). Come in Sardegna, gli assistenti sociali comunali di altre regioni spesso si occupano in prima istanza di individui vulnerabili, indirizzandoli ai PUA quando l’utente ha esigenze sanitarie o complesse. Il grado in cui un PUA è un vero e proprio punto focale per l’accesso alle unità di valutazione multidisciplinare e ai servizi per la disabilità legati alla salute varia tra le regioni.

Un ultimo aspetto che sembra impedire ai PUA di funzionare secondo il loro potenziale è la variazione esistente nel modo in cui queste strutture operano allinterno delle regioni. Le quattro regioni di interesse non solo differiscono in termini di maturità dei loro punti unici di ingresso, ma anche per quanto riguarda le disposizioni legali esistenti e le indicazioni su come implementarle a livello locale. Ad esempio, la Sardegna faceva originariamente parte delle regioni che hanno concepito i PUA, mentre in Lombardia sembra esserci meno una visione di tutta la regione per le strutture equivalenti – Sportelli Unici per il Welfare (SUW). La Lombardia sembra essere la regione con la copertura più scarsa di punti unici di accesso e la maggiore variazione interna, dato che l’esistenza delle strutture è il risultato diretto dell’azione e del coordinamento a livello locale tra ciascuna Azienda Socio Sanitaria Territoriale (ASST) e il suo corrispondente gruppo di Comuni (ambito). Tuttavia, la variazione all’interno della regione prevale anche quando vengono definiti degli standard regionali, come in Sardegna e in Campania. Ciò è dovuto al fatto che le caratteristiche operative dei punti unici di accesso sono definite anche a livello territoriale/locale, con l’articolazione lasciata alla collaborazione tra le autorità sanitarie locali e i servizi territoriali/comunali, che in alcune circostanze appare difettosa. Le diverse modalità di implementazione delle loro funzioni, come il fatto che ogni PUA decida come eseguire la pre-valutazione dei bisogni, portano all’eterogeneità dei percorsi seguiti dalle persone dal loro ingresso nel sistema in poi e ostacolano la capacità dei PUA di promuovere l’equità. Nel complesso, sebbene la flessibilità nell’adattare i PUA al contesto regionale e locale possa consentire una risposta più mirata alle esigenze della popolazione, aumenta anche la probabilità di disuguaglianze geografiche e di inefficienza, e in definitiva impedisce a queste strutture di essere strumenti facilmente identificabili e azionabili, e di raggiungere il loro obiettivo di integrazione. Nella loro forma attuale, i PUA non riescono a rappresentare veramente una porta d’accesso a tutti i servizi e prestazioni disponibili per le persone con disabilità. La mancanza di dati disponibili sull’uso di questi strumenti significa che non si sa nulla della percentuale effettiva di persone che accedono alle cure attraverso i PUA.

Le valutazioni di secondo livello a livello regionale sono progettate per abbinare le esigenze dei richiedenti con il supporto disponibile (da qui il nome “valutazioni dei bisogni”). Sarebbe quindi ragionevole aspettarsi che le valutazioni dei bisogni vengano effettuate come una continuazione di un precedente processo di valutazione della disabilità, e in particolare che si basino sulle informazioni e sulle conclusioni delle valutazioni dello stato di disabilità. In pratica, c’è un grande divario tra le valutazioni dello stato di disabilità e le valutazioni dei bisogni, e le prime sono di utilità limitata per le seconde. È probabile che ci siano diverse ragioni per questo scollamento, tutte correlate tra loro:

  • la prospettiva eccessivamente medicalizzata delle valutazioni dello stato di disabilità, che limita la loro utilità per la valutazione dei bisogni, dove il ruolo dell’ambiente è una componente importante.

  • Il formato dei risultati delle valutazioni dello stato di disabilità, in quanto sia la percentuale di invalidità civile derivata principalmente dalle cartelle cliniche, sia le due categorie di handicap forniscono informazioni molto limitate sull’effettiva disabilità del richiedente.

  • Limitazioni significative nella condivisione dei dati; i rapporti di valutazione delle commissioni medico-legali possono contenere informazioni aggiuntive, ma non esiste un meccanismo sistematico per rendere disponibili questi materiali ai fini delle valutazioni dei bisogni.

Le limitazioni sopra descritte sono particolarmente evidenti per lo stato di invalidità civile, che è lo stato più rilevante per le persone con disabilità per accedere ai supporti, ma è difficilmente rilevante e preso in considerazione nella valutazione dei bisogni. Lo status di handicap (grave) è più spesso una condizione per l’accesso ai servizi a livello regionale, ossia l’idoneità a programmi come il “Dopo di noi” o il “Fondo per la non autosufficienza” (vedere il prossimo capitolo per i dettagli su questi programmi). Sebbene sia una condizione di idoneità, le informazioni ottenute dalla valutazione dell’handicap sono ancora di uso limitato nella valutazione dei bisogni. Per compensare lo scollamento tra lo stato di disabilità e le valutazioni dei bisogni, alcune valutazioni dei bisogni coinvolgono ancora i medici di base o altri medici per iniziare il processo di valutazione da zero. I medici sono tenuti a fornire informazioni sulle patologie della persona, duplicando così la produzione del certificato medico nella prima fase della richiesta dello stato di disabilità. In Sardegna, ad esempio, il verbale di accertamento rilasciato dalla Commissione di Invalidità Civile può essere incluso nel processo di richiesta di assistenza domiciliare, ma non è un requisito essenziale.

Le valutazioni dei bisogni vengono effettuate a livello regionale e locale in almeno tre contesti. In primo luogo, la valutazione multidimensionale viene effettuata da team multidisciplinari che lavorano a stretto contatto con i PUA. Come gli stessi PUA, anche questi team dovrebbero svolgere un ruolo di integrazione dei settori sanitario e sociale e dei rispettivi servizi. In pratica, le valutazioni dei bisogni effettuate da questi team sono per lo più un prerequisito per accedere ai servizi forniti dal settore sanitario (compresi gli approcci residenziali, semi-residenziali e di assistenza domiciliare integrata e alcuni programmi di integrazione come “Dopo di noi”), piuttosto che una valutazione completa che consentirebbe di accedere direttamente all’intero ventaglio di servizi esistenti in modo integrato. Pertanto, le valutazioni dei bisogni vengono effettuate anche da altri attori del sistema della disabilità. Esistono due tipi principali di valutazione. Da un lato, le valutazioni delle esigenze specifiche dei servizi sono per lo più effettuate dagli assistenti sociali dei Comuni, al fine di fornire l’accesso ai servizi sociali. Dall’altro lato, la valutazione dei bisogni può essere multidimensionale e multidisciplinare, ma viene effettuata a livello del fornitore di servizi, per lo più dal personale del fornitore di servizi e spesso includendo il medico di medicina generale o un assistente sociale del settore socio-sanitario che accompagna il richiedente. In Lombardia, ad esempio, la valutazione multidimensionale per i servizi semiresidenziali viene effettuata dall’équipe del servizio (compresi il coordinatore e gli operatori sanitari) con la partecipazione degli assistenti sociali comunali. Mentre le valutazioni guidate dai fornitori per l’accesso diretto alle strutture private esistono in diverse regioni, la Lombardia sembra essere un caso speciale. A causa dell’alto grado di privatizzazione sul lato dell’offerta, le valutazioni guidate dai fornitori sono possibili anche per i richiedenti finanziati con fondi pubblici.

La maggior parte delle valutazioni dei bisogni attualmente disponibili a livello regionale mira ad essere multidimensionale, un concetto derivato dalla valutazione dei bisogni geriatrici e proposto nei primi anni 2000 per promuovere l’efficacia e l’appropriatezza dei servizi socio-sanitari.3 Il metodo di valutazione multidimensionale dovrebbe consentire di “definire il complesso integrato dei bisogni dell’ospite, con riguardo alle problematiche sanitarie, assistenziali, tutelari, psicologiche e socio-economiche, osservando ad esempio tanto gli aspetti cognitivi e funzionali che il contesto socio-abitativo: reddito, tipologia di abitazione ed eventuale presenza di barriere architettoniche, presenza di un(a) caregiver in famiglia, ecc.”.

La valutazione multidimensionale viene spesso effettuata da un team multidisciplinare, anche se non è sempre così. Nel contesto italiano, sembrano esserci principalmente due tipi di équipe multidisciplinari: quelle che operano nel contesto dei fornitori di servizi e valutano i richiedenti di un servizio specifico; e le unità di valutazione multidisciplinare, che sono équipe integrate/interistituzionali che lavorano a stretto contatto con i PUA. Queste unità di valutazione multidisciplinare possono essere chiamate in modo diverso nelle varie regioni, ossia Unità di Valutazione Integrata (UVI) in Campania, Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM) in Lombardia, Unità di Valutazione Territoriale (UVT) in Sardegna e Unità di Valutazione Multidisciplinare (UVM) in Trentino. Tuttavia, la loro composizione presenta caratteristiche comuni alle quattro regioni. Ad esempio, di solito comprendono un medico – un medico di medicina generale o un medico affiliato all’autorità sanitaria locale, o entrambi – e un assistente sociale. Altri possibili membri spesso includono un infermiere o un medico specializzato nella condizione medica alla base della disabilità. È importante notare che sembra essere comune in tutte e quattro le regioni che l’assistente sociale che partecipa all’unità di valutazione provenga dal distretto sanitario locale (ambito sanitario) o dal Comune (ambito sociale). Quest’ultimo è più probabile che sia presente quando la persona con disabilità entra per la prima volta nel sistema attraverso i servizi sociali e poi viene indirizzata da un assistente sociale a livello comunale al punto unico di accesso o direttamente all’unità di valutazione multidisciplinare a causa di esigenze sanitarie. La Campania sembra essere un’eccezione, in quanto gli assistenti sociali comunali sono descritti come parte delle unità di default. In assenza di un assistente sociale comunale, le unità multidisciplinari sono composte interamente da professionisti collegati all’ambito sanitario e non sono veramente interistituzionali. Dato che le valutazioni dei bisogni effettuate sono per lo più incentrate sui servizi disponibili dal lato sanitario, queste équipe sembrano avere un margine limitato per promuovere l’integrazione stessa. Inoltre, la composizione delle équipe incentrata sulla sanità può favorire un approccio medico alla disabilità nella valutazione dei bisogni, in quanto l’uso di un criterio medico è spesso percepito dai valutatori come una riduzione della discrezionalità della valutazione. La medicalizzazione delle valutazioni multidimensionali in Italia è probabilmente spiegata dall’uso predominante di queste valutazioni per determinare l’idoneità ai servizi sanitari. In altri Paesi, le valutazioni dei bisogni spesso coinvolgono solo gli assistenti sociali, o gli assistenti sociali e gli specialisti della riabilitazione.

Nelle quattro regioni studiate, i richiedenti con esigenze sanitarie possono anche essere indirizzati all’unità dai medici di medicina generale, dagli assistenti sociali di livello comunale o da altri attori. Ad esempio, in Trentino, i medici legali dell’autorità sanitaria locale hanno il diritto di indirizzare i richiedenti per la valutazione dei bisogni all’UVM, dove hanno anche una responsabilità importante per le valutazioni dello stato di disabilità.

Un altro aspetto delle procedure seguite dalle équipe di valutazione multidisciplinare che deve essere evidenziato è la mancanza di un protocollo specifico per la valutazione dei bisogni. Sebbene si riconosca che le équipe di valutazione multidimensionale dovrebbero utilizzare scale e strumenti scientificamente convalidati che sono stati sottoposti a revisione critica a livello nazionale o internazionale (vedere nota a piè di pagina 7), la scelta di questi strumenti è solitamente lasciata a ciascuna équipe o, nel migliore dei casi, armonizzata a livello regionale. Nel caso della Campania, una Delibera della Giunta Regionale (DGR 324/2012) ha stabilito che l’UVI debba utilizzare la Scheda di Valutazione Multidimensionale per le persone con Disabilità (SVaMDi). Lo strumento SVaMDi utilizzato in Campania è un adattamento dello strumento originariamente sviluppato nella Regione Veneto per standardizzare la fornitura di livelli essenziali di assistenza sociale e sanitaria tra le varie località e per assistere i team nella progettazione di progetti/piani per i richiedenti. SVaMDi è stato progettato per fornire informazioni che facilitassero l’organizzazione dei servizi a livello regionale e permettessero di monitorare i progressi dei richiedenti. Nella sua forma originale, questo strumento consisteva in cinque parti, quattro delle quali sono strettamente correlate ai domini ICF (deficit delle funzioni corporee, limitazioni nelle attività e nella partecipazione, fattori ambientali e valutazione sociale) e consentivano di tracciare un profilo delle persone in termini di funzionamento e gravità. Il completamento di ciascuna delle quattro parti sarebbe di competenza di diversi professionisti, tra cui medici di medicina generale e assistenti sociali. La quinta parte sarebbe una copertina che riassumerebbe le informazioni fornite nel resto dello strumento e si concluderebbe con il piano mirato, sotto la responsabilità dell’unità di valutazione multidisciplinare. L’adattamento campano dello SVaMDi originale è descritto nel Riquadro 2.1. Sebbene le diverse parti della scheda di valutazione siano definite a livello regionale, ogni team di valutazione multidisciplinare ha la flessibilità di decidere esattamente quali strumenti e scale utilizzare all’interno di queste diverse parti.

Secondo quanto riferito, le unità di valutazione multidisciplinare in altre regioni utilizzano strumenti con una struttura simile, in una prima fase completando una serie di strumenti e scale e in una seconda fase compilando le informazioni e formulando raccomandazioni; gli strumenti utilizzati dipendono dai servizi o dai programmi interessati. Ad esempio, in Sardegna si utilizza uno strumento come SVaMDi, ma focalizzato sugli anziani, per valutare l’idoneità ai servizi di assistenza domiciliare (Scheda Valutazione Multidimensionale dell’Adulto e dell’Anziano, SVaMA). D’altra parte, la Sardegna utilizza una scheda di valutazione dei bisogni specifica, definita da una Delibera della Giunta Regionale (DGR 63/12 dell’11 dicembre 2020), per valutare i richiedenti del programma “Ritornare a casa”, che prevede il ricorso all’assistenza domiciliare. Nel caso dei servizi residenziali e semiresidenziali, le UVT sarde utilizzano una serie di scale e misure cliniche e funzionali (ad esempio CIRS, Bernardini, Barthel, breve questionario e domande specifiche per la patalogia, se applicabile), che vengono combinate con informazioni sull’ambiente sociale del richiedente per assegnargli un profilo. Questo profilo deve riflettere tre livelli di intensità del supporto necessario in termini di assistenza sanitaria (medio, moderato, basso, secondo lo strumento Bernardini) e in termini di assistenza sociale (medio, medio-alto, alto, secondo la Scala di Barthel). In Trentino, le diverse scale e gli strumenti utilizzati dipendono dal profilo del paziente e dal tipo di struttura identificata come potenziale servizio, ma l’UVM deve anche compilare una scheda di valutazione multidimensionale (Scheda per la Valutazione Multidimensionale, SVM). Nel caso della valutazione per i progetti di vita individualizzati, l’UVM del Trentino utilizza una versione adattata della SVaMDi del Veneto. La Lombardia ha introdotto uno strumento simile nel 2022 (Scheda Individuale del Disabile, SIDi).

La maggior parte degli strumenti di valutazione multidimensionale mira a fornire un modulo per l’elaborazione di un progetto individuale, descrivendo un percorso di cura (integrato) che risponda alle esigenze del richiedente. Il ruolo delle unità di valutazione multidisciplinare potrebbe anche essere esteso oltre la semplice valutazione, ad esempio per monitorare regolarmente l’attuazione del piano e apportare modifiche se necessario. In pratica, sia la progettazione che il follow-up dei piani personalizzati per le persone con disabilità sembrano essere limitati. Mentre l’approccio viene seguito per programmi specifici con un proprio flusso di finanziamento (ad esempio, “Dopo di noi”, “Ritornare a casa” in Sardegna), il risultato delle unità di valutazione multidisciplinare è più spesso guidato e indirizzato verso un tipo di servizio, piuttosto che essere uno strumento veramente integrato che permette di avere diritto al supporto tradizionale.

Lo stato di disabilità e la valutazione dei bisogni in Italia sono una questione complessa per due motivi: la molteplicità di diverse valutazioni dello stato di disabilità a livello nazionale, che è insolita in un contesto internazionale; la responsabilità regionale-comunale per la valutazione dei bisogni, che spesso è guidata dai servizi o dai fornitori; e la mancanza di qualsiasi collegamento tra lo stato di disabilità e la valutazione dei bisogni. Il risultato è un sistema difficile da capire e quindi in cui è difficile orientarsi, e un sistema che crea notevoli disuguaglianze, sia tra le regioni e i comuni, sia tra persone in situazioni simili o con livelli di disabilità simili. Razionalizzare, armonizzare e collegare meglio i diversi strumenti di valutazione sarà importante per rendere il sistema più efficiente ed efficace.

Riferimenti

[2] Pesaresi, F. (2013), “Le funzioni dei punti unici di accesso”, Welfare Oggi 1/2013, pp. 15-22, https://www.periodicimaggioli.it/rivista/welfare-oggi/1615069/2013/fascicolo/1618637.

[1] United Nations (2011), Including the rights of persons with disabilities in United Nations programming at country level: A Guidance Note for United Nations Country Teams and Implementing Partners, United Nations Development Group, https://www.un.org/disabilities/documents/iasg/undg_guidance_note_final.pdf.

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